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03 May 2013

Maximoto, le regine delle ipersportive (prima puntata)

In ogni periodo c’è un modello sportivo che spicca: e non è detto che sia sempre il più veloce. Rassegna delle superstar a due ruote: cominciamo col periodo dagli anni Settanta/Novanta del ‘900

Maximoto, le regine delle ipersportive (prima puntata)

 

di Mario Ciaccia

 

L'ultima comparativa delle supersportive conferma che, da tempo immemore, ce n'è sempre una che spicca sul branco ed è il riferimento per le altre. Spesso non sono i dati scientifici (velocità, potenza, tempo sul giro) a darle il titolo di reginetta, ma risulta "la migliore" in base a cose meno razionali, come il feeling, l’estetica, la storia agonistica. Il passaparola avviene tramite le prove delle riviste, i discorsi da bar e da quante se ne vedono passare sui passi di montagna. Ogni epoca ha avuto la sua star. Certo, in questo periodo tali moto non sono più vendute come una volta, ma è logico: non solo siamo in un periodo difficile per vendere ipersportive da 20.000 euro, ma ormai il loro livello prestazionale è tale che, per goderle appieno, bisogna avere tanto manico e girare in pista. Naked e maxienduro sono più divertenti, se si è persone normali e si va sulle strade aperte al traffico.

 

ANNI SETTANTA

Credo di poter collocare la storia della sportiva moderna a partire dagli anni Settanta, quando le moto inglesi erano in declino e arrivarono le 750 italiane e giapponesi. Dico "credo", perché mi sono appassionato alle moto solo dal 1980 in poi, quando avevo 14 anni.

Penso che Suzuki GT750, MV Agusta 750S e Benelli 750 Sei si possano considerare a margine di questa storia, perché le sportive di riferimento di quegli anni erano soprattutto le bicilindriche italiane (Guzzi V7 Sport, Ducati 750 SS e Laverda 750 SF), la Honda CB750 Four e la Kawasaki Mach IV. Le prime tre erano rudi e spartane, ma molto efficaci in curva, mentre la Honda era tutto il contrario: rifinita benissimo, comoda, fluida, con una ciclista più votata al comfort che ai curvoni da fare a gas spalancato. Quanto alla Kawasaki, è una moto che ha un grande fascino ancora oggi, per il suo concetto tanto essenziale, quanto demenziale: un semplicissimo tre cilindri a due tempi da 750 cc, dalla spinta devastante, abbinato a una ciclistica messa lì tanto per collegare le ruote al telaio. Era una moto che ai semafori stracciava tutte le altre, salvo poi non stare in strada una volta lanciata come una fionda. Ma qual era la regina dell'epoca? Non lo so: come ho detto, non ho vissuto quel periodo. Ho solo questo ricordo: mia madre, insegnante di matematica in un liceo milanese, che va al funerale di un suo alunno che, dopo essere stato invidiato da tutti per via della sua Mach IV, si era ucciso, con la medesima, arrivando lungo al curvone della Citterio di Rho.

Dopodiché, mentre le giapponesi abbandonavano il 2T e lievitavano verso i 1.000/1.100 cc, le italiane restavano ferme al palo.

 

 

1980, SUZUKI KATANA 1100

Gli anni 80 hanno avuto due caratteristiche ben precise: moto italiane praticamente immutate e moto giapponesi che evolvevano in maniera quasi isterica. Ad ogni autunno degli anni pari arrivava la bordata delle 750, mentre negli anni dispari arrivavano le 1.000/1.100 che beneficiavano delle innovazioni tecniche delle 750 dell'anno prima. Sono stati anni importanti, con l'arrivo del raffreddamento ad acqua, delle prime iniezioni, della ruota anteriore da 16" (poi sostituita dalla 17"), del monoammortizzatore posteriore con leveraggi per renderlo progressivo, dell'antidive (un sistema che impediva alla forcella di affondare in frenata, poi sparito) e dei telai in tubi quadri d'acciaio, in seguito sostituiti dai perimetrali in alluminio. E le italiane? Quasi nulla: venivano solo maggiorate verso il litro di cilindrata, mantenendo la stessa, obsoleta tecnica. Honda era la più "sborona": presentava moto che, sulla carta, avrebbero dovuto sbaragliare la concorrenza ma, a motori strapotenti, non corrispondevano ciclistiche all'altezza. È il caso della bellissima CBX1000 a 6 cilindri e della CB1100R, primo esempio di race replica giapponese. In base ai miei ricordi, sulle riviste che leggevo all'epoca (tra cui spiccava Motociclismo) c'era un certo stupore nel constatare come moto molto meno appariscenti, ovvero la Kawasaki Z1000J e la Suzuki GSX1100E, a fronte di prestazioni analoghe, stessero molto meglio in strada. E quando Suzuki presentò una versione "spaziale" della sua 1100, la GSX1100S, ecco che la regina diventò lei. Conosciuta meglio come "Katana", aveva una linea straordinaria sia per l'epoca, sia guardando ciò che i giapponesi hanno fatto in seguito: non s'è mai vista una moto del Sol Levante con un'estetica così originale e fuori dagli schemi (infatti il design era opera dello studio Target, che era tedesco). Aveva 90 CV alla ruota e Motociclismo ne parlò come di "una specie di dragster". Oggi, 90 CV fanno ridere persino i principianti, come se, su strada, il traffico non sia persino aumentato!

 

 

1982, HONDA VF750F

La Katana è stata la regina del suo periodo, ma aveva una meccanica e una ciclistica vecchissime, se si pensa a quello che i giapponesi stavano sperimentando in quel periodo. Infatti, subito dopo arrivò la bordata delle 750 con raffreddamento ad acqua, ruota da 16", monoammortizzatore posteriore e telaio in tubi quadri. A dire il vero, c'erano anche le moto turbo, ma non ebbero successo. La più avanti di tutte era la Honda VF750F da 86 CV. Avevo 16 anni e, quando la vidi su Motociclismo, rimasi di stucco. Mai vista una moto più bella e moderna. Pensai a un prototipo senza futuro, invece era in produzione di serie! Eppure, a leggere le prove e a sentire cosa si diceva in giro, questa moto non era la migliore della sua classe. La sua guida era strana, l'avantreno non dava fiducia, qualcuno ci cadeva senza capire perché. Mentre rivali come la Kawasaki GPZ750 UniTrack erano molto più intuitive e sincere, pur avendo ciclistiche meno avanzate. Tuttavia, la VF-F era talmente bella che è stata lei la regina delle discussioni da bar del suo anno. Si sapeva già che, l'anno dopo, sarebbe arrivata la sorellona da 1000 cc...

 

 

1983, KAWASAKI GPZ900R

L'autunno del 1983 me lo ricordo come se fosse ieri. L’asticella delle prestazioni si alzò di netto. Tutte e quattro le sorelle giapponesi presentarono moto da almeno 120 CV all’albero e oltre 240 km/orari che, per l'epoca, erano record assoluti. E Honda, aggressiva come non mai, presentò l'evoluzione estrema della sua VF: la VF1000R, con distribuzione a ingranaggi e carena integrale. Sparava 130 CV (quasi veri) e 280 km/h (però andava a 30 orari di meno), ma la scena le venne rubata da una Kawasaki che andava controcorrente: la GPZ900R, infatti, mandava in pensione una sorella da 1100 cc che era già alimentata a iniezione, mentre questa aveva il motore più piccolo ed era a carburatori. Aveva anche un telaio in tubi tondi d'acciaio. Ma era più moderna: aveva l'acqua, la 16", l'alternatore dietro i cilindri. E, soprattutto, in pista bastonava tutte le altre. Oggi sembra una paciosa moto da turismo, con una comoda sella biposto, ma ci sono smanettoni cinquantenni che si inumidiscono gli occhi, al pensiero di come andava bene quella Kawasaki. In seguito, la GPZ900R è stata rimpiazzata da una serie di 1.000/1.100 cc più potenti e massicce (GPZ1000RX, ZX-10R, ZZR1100), che hanno detenuto per anni i record di potenza e velocità massima, ma non hanno mai conquistato lo scettro di reginetta delle maxi come fece la formidabile 900R. In realtà, versioni di questa (con la 17" all'anteriore) sono state vendute fino al 1989, ma non come supersportive di punta di Kawasaki.

 

 

1984, YAMAHA FZ750

Ormai s'era capito che ad ogni autunno c'era da restare a bocca aperta e, infatti, nel 1984 toccava alle 750. Ma furono solo due (Suzuki GSX750R e Yamaha FZ750), più due proposte anomale. Queste ultime furono la Suzuki Gamma 500 a due tempi in versione stradale (molto più potente e leggera della Yamaha RD500 dell'anno prima) e la Ducati Laguna Seca 750, molto più moderna della obsoleta 1000 MHR, che sfruttava la coppia e la leggerezza contro le potenze pure delle giapponesi. Ma furono ancora una volta le 750 a giocarsi il titolo di reginette dell'anno. Ricordo che, quando vidi la FZ750 e la GSX750R presentate sullo stesso numero di Motociclismo, la Yamaha mi lasciò indifferente, mentre la Suzuki era una roba da infarto. Una endurance replica, con cerchi da 18" davanti e dietro, carena integrale, telaio in alluminio spigolosissimo, mostruosi freni con pinze a 4 pistoncini (i "decapiston", 8 davanti e 2 dietro) e un godurioso scarico 4 in 1 avvolto in un foglio traforato. Sembrava una moto da corsa fatta e finita (a parte l’orrido faro rettangolare al posto del doppio tondo di serie che in Italia, in quel periodo, era vietato) mentre la Yamaha aveva un normale look da moto turistica. Ma poi, provandole, la Suzuki si rivelò più impegnativa e meno innovativa dell'altra, che sfoggiava un favoloso motore a 20 valvole capace di girare a regimi bassissimi, di riprendere con grande vigore e di andare molto forte, con gran facilità, su tutti i terreni, dalla montagna alla pista. La gente diceva: "Oh! La GSX-R è fighissima, ma sai che la FZ va ancora meglio?". A questo punto, era evidente che, nel 1985, sarebbero arrivate le sorelle da 1.000 cc...

 

 

1985, SUZUKI GSX1100R

In realtà, proprio in quel periodo le Case giapponesi iniziarono a rallentare. Honda fece slittare la presentazione della sua 750 di un anno, quando Suzuki aveva già pronta la sorellona della GSX750R. Mentre Yamaha aspettò anch'essa un anno per fare uscire la FZR1000. In pratica, la Suzuki GSX1100R si ritrovò da sola, senza rivali e le critiche furono molto più lusinghiere rispetto alla 750 (forse perché, nel frattempo, ci si era riabituati all’anteriore da 18”): la 1100 non solo deteneva i primati di potenza, velocità (sfiorava i 260) e accelerazione, battendo persino le Kawasaki, ma vantava una guida che, per quanto "fisica" e impegnativa, in pista permetteva di primeggiare. E così la regina delle maxi fu lei. Però la Honda VFR750F non fu da meno: ovviamente era meno veloce, ma fu una svolta epocale. Elegantissima nella sua livrea bianca, pur essendo la 750 più veloce (oltre 100 CV, oltre 240 km/h) non era "sborona" e aggressiva come la VF1000R. Inaugurò un nuovo corso da parte di Honda, capace di fare tendenza, questa volta, senza puntare a tutti i costi sui muscoli, ma sull’eleganza e sull’efficacia di guida. Negli anni successivi, le presentazioni delle novità si sono fatte meno incalzanti, così a qualche moto riusciva di essere la migliore maxi sportiva per più di un anno.

 

 

1987, HONDA VFR750R RC30

Una vera rivoluzione è avvenuta quando è stato varato il Campionato Mondiale Superbike. La sua ricetta prevedeva l'utilizzo di 4 cilindri da 750 cc e di bicilindriche da un litro. La cosa scatenò la corsa alle superprestazioni delle 750 giapponesi, ma portò anche al declino delle 1.100 cc e alla speranza, da parte delle Case italiane, di poter salire su un treno che pareva perso da un pezzo. Moto Guzzi sembrava già pronta, con la Daytona 1000 (una versione della Le Mans 1000 elaborata da un medico americano, che aveva vinto la Superbike USA contro le 750 giapponesi), ma su quel treno non salì mai. Invece Ducati, quasi a sorpresa, elaborò alla morte il suo Pantah da 750 cc, stravolgendolo. Nacque la 851, la prima moto italiana all’altezza delle giapponesi da una decina d’anni a quella parte. Ma era ancora presto perché fosse lei la sportiva più ammirata. Quell’anno, nei bar, la gente sospirava pensando alle forme della Honda VFR750R, per tutti la RC30. Piccola, bassa, cattivissima, nata per vincere il Mondiale Superbike senza rivali (cliccate qui per sentirne la voce). Lo vinse, ma fino all’ultimo venne preceduta da un’artigianalissima Bimota e da una Yamaha FZ750 col manubrio alto come quello di serie: Fred Merkel, il pilota ufficiale Honda, ricevette la vittoria su un piatto d’argento quando Tardozzi e Pirovano andarono in pallone nell’ultima gara. Ancora oggi c’è chi, non sopportando l’attuale “Mazinga Style”, rimpiange il suo doppio faro tondo anteriore.

 

 

1988, YAMAHA FZR1000 EX-UP

Yamaha aveva già risposto alla Suzuki GSX1100R con la FZR1000 del 1986, ma la moto, per quanto eccellente, non aveva sconvolto nessuno. Anzi, le prestazioni erano leggermente inferiori alla rivale. Sembrava che tutte le attenzioni fossero rivolte alle Superbike da 750 cc, quando Yamaha, a fine 1988, presentò la seconda serie della FZR1000. E fu grosso passo avanti, perché non solo aveva alzato l’asticella oltre i 270 km/h effettivi, ma aveva anche introdotto la valvola allo scarico (Ex-Up), che permetteva a un motore così spinto di girare molto bene ai bassi regimi. Al suo cospetto, tutte le altre sportive erano diventate, di colpo, vecchie. Suzuki ha aggiornato costantemente la sua 1100, fino al 1998, ma non è più diventata più la moto di riferimento. Honda ha smesso di produrre maxi strapotenti, puntando sulla guidabilità. Kawasaki ha distinto nettamente tra agili 750 pistaiole e paffute 1100 adatte più alle autostrade tedesche che alle strade di montagna. Sicché, la Ex-Up è stata la moto di riferimento fino agli inizi degli anni Novanta.

 

A presto per la seconda puntata

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