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Mach III

La storia delle moto inizia nel 1969: arriva la Kawasaki Mach III (arriva anche la Honda 750 Four ma oggi parlo della Kawa)

Mach iii

Continuo a parlare delle moto che mi sono piaciute (cliccate qui per leggere gli altri articoli, ndr), ora però faccio un passo indietro e passo a una che non ho mai guidato. Ma che mi ha segnato per sempre. Sono i primi anni '70 e Italia arrivano le moto. Lo so che c'erano anche prima, ma per me LE MOTO iniziano in quegli anni. Perché arrivano le maxi giapponesi, una roba che non s'era mai vista al mondo, e arrivano in un momento giusto della mia vita: ho 13 anni, inizio a bazzicare con i motorini, e sul lungomare della mia città (Pesaro) vedo a sfrecciare le prime due tempi tre cilindri e quattro tempi quattro cilindri. Posso resistere? NO. Tra l'altro sempre nello stesso periodo arrivano anche le minigonne, quindi se mettete insieme le maximoto e le minigonne, vedete che salta fuori una combinazione esplosiva e capite perché cui noi, oggi 50-60enni, stiamo così combinati. Che le mogli ci dicono ma quand'è che cresci? Ormai non più.

 

ARRIVA LA KAWASAKI E TUTTO IL RESTO SPARISCE

Ho detto due tempi tre cilindri e quattro tempi quattro cilindri perché le prime due maxi della mia vita sono la Kawasaki Mach III 500 e la Honda 750 Four. All'epoca pareva fossero arrivati i marziani. Ok, per qualcuno c'erano anche delle altre belle moto, ma per me non c'era nulla a livello delle due giapponesi. Le italiane erano poche, e comunque  a confronto con la Mach e la Four mi parevano vecchie come il cucco. E le inglesi? Sorry, ma avevano l'aria di anziane zie zitelle, e poi dalle nostre parti non le aveva nessuno, in pratica si è saltati d'un botto dalle carriole monocilindriche da 12 CV quando va bene alle 500-750 giapponesi da 60-70 CV, e anche questo ha fatto il suo bell'effetto. Questa Mach poi - parlo della prima, quella col serbatoio bianco e il freno a tamburo (qui la gallery)- faceva paura. Era la prima moto che vedevo così grossa e potente, un sibilo che non te lo immagini nemmeno e spariva via tra le auto.

 

IL PICCOLO IDEOLOGO SMANETTONE

Che poi, a conti fatti, tutta questa superiorità non c'era, le altre moto non è che fossero ferme, ma l'effetto del tre cilindri due tempi era spaziale. Poi pare che in quanto a frenata e tenuta di strada... beh, il soprannome lo sapete. Ma questo invece di allontanarmi - beata incoscienza dei ragazzi, dei motociclisti - aggiungeva ancor più fascino ai miei occhi: non ero mai salito su un motorino con le marce ma ero già un ideologo smanettone. Ancora ne dovevo mangiare di pappa: la Mach III è arrivata in Italia nel '69, io avevo ancora un anno di biciclettina, poi sarebbero arrivati il motorino, il 125, la 350 e alla fine forse forse avrei anche potuto pensare a una moto come si deve.

 

GRAZIE ARCHIVIO

Eh, niente, da quelle estati spese a sognar di Kawasaki e minigonne sono passati più di quarant'anni, ma ancora oggi su una Mach non ci son salito. Però nell'armadietto della redazione ci sono i Motociclismo dell'epoca e sono andato a vedere la prova della mitica Mach III. Qui riporto - più o meno così come li leggo da Motociclismo di agosto 1969 - alcuni commenti che ho trovato interessanti. Specchio di tempi affascinanti e anche ingenui. Eccoli.

 

LE FRECCE PER FORTUNA SI TOLGONO

Siamo riusciti a disporre della prima Kawasaki giunta in Italia, e dato il carattere della moto, come sede delle prove è stato scelto l'autodromo di Monza. La Mach III è bella, più di quanto non appaia dalle foto, linea svelta, cromature contenute, tinteggiatura sobria ed elegante. Questi giapponesi hanno l'aria di fare sul serio, niente orpelli, niente specchietti, l'immagine della goffa 650, replica della BSA, si dissolve immediatamente: questa 500 è degna del massimo rispetto. Unica stonatura i quattro bulbi arancioni dei segnali di direzione, due e anteriori, di fianco al fanale, e due posteriori, di fianco alla targa, ma per fortuna si possono rimuovere facilmente ed è da supporre che le moto che verranno eventualmente importate in futuro ne siano sprovviste, visto che in Italia sono obbligatori i segnali a mano.

Il motore è molto largo (il carter è di 55 cm), ma anche molto basso. Le misure sono quasi quadre (60 x 58,8 mm), non si è andati verso un superquadro, in linea con i più avanzati dettami della motoristica, proprio per limitare gli ingombri laterali, visto che l'ingombro di un due tempi ad aria è dovuto, oltre che dai travasi, anche dall'abbondante alettatura, visto che il due tempi scalda più del quattro tempi. L'albero a gomiti appoggia su sei cuscinetti a sfere, l'alimentazione è affidata a tra carburatori Mikuni da 26 mm alimentati non a caduta ma da una pompa a membrana azionata dalla depressione che si crea nel collettore del cilindro di destra.

 

LE TRE SCATOLETTE MISTERIOSE

La lubrificazione è per circuito separato, con pompa e serbatoio dell'olio, così nel serbatoio c'è solo la super (ai tempi la miscela era con la normale e poi così si può scegliere l'olio che si vuole). L'accensione è elettronica e il cuore di tutto il complesso è posto sotto la sella, in tre scatolette misteriose che ci hanno fatto sorgere un pensiero: chi mai, qui in Italia, dove è già difficile farsi mettere a posto il pedestre impianto elettrico di un bicilindrico, saprà mettere le mani in un circuito stampato pieno di diodi, transistor e compagnia? Il gruppo motore-cambio ha dimensioni compatte, e di profilo sembra un bicilindrico 250; bisogna guardarla di tre quarti davanti per capire che si tratta di un drago sputafuoco di 60 CV, ottimo per lasciare di stucco qualche sprovveduto ferrarista in vena di fare il duro al semaforo. Il telaio è una delle tante imitazioni del celebre "letto di piume" nortoniano, con leggere variazioni, la forcella imita invece quelle delle nostre marche più rinomate.

 

CI VOGLIONO GLI STIVALETTI DA VELOCITÀ

Innestiamo la chiave e agiamo vigorosamente sulla pedivella di avviamento. Tanta energia non è necessaria: la resistenza è minima e il motore parte con una facilità incredibile. Il manubrio è dritto, abbastanza largo e permette di guidare comodamente, tanto in assetto corsaiolo che turistico. La posizione di folle è tutta in basso, facile da trovare, comodo, ma se non si contano le marce in scalata si corre il rischio di trovarsi senza il provvidenziale effetto frenante del motore proprio sul più... bello. Innestiamo la prima, lasciamo la frizione, dolce e progressiva, e diamo moderatamente gas: il motore risponde in modo fantastico, va su di giri come una turbina, rotondo e potente, senza vibrazioni. La leva è troppo in basso e vicina alla pedana, per raggiungerla agevolmente occorre indossare gli stivaletti da velocità.

 

SI PIEGA FINO ALLE PEDANE

A 6000 giri in quinta si viaggia a 150 km/h, e la Mach III fila dritta come una freccia, senza vibrazioni né oscillazioni, fino a questa velocità il telaio e le sospensioni si dimostrano all'altezza dell'eccezionale propulsore. Ma è in curva che restiamo davvero sorpresi: si può piegare fino a consumare le pedane, la sensazione di stabilità e sicurezza assolute è meravigliosa e difficilmente riscontrabile in moto di produzione di questa cilindrata e di questo peso. Il motore, dal baricentro basso (in testa non ci sono alberi a camme né valvole), agisce come un giroscopio e permette correzioni, richiami e affondate con assoluta confidenza; errori che con altre moto verrebbero duramente pagati. I freni, seppur non di vistose dimensioni, sono efficienti e adeguati alle prestazioni, e non denunciano fenomeni di fading. Qualche difetto viene fuori se si spinge forte sui fondi irregolari: a causa della forcella sottile e dallo scarso effetto ammortizzante, ogni buca causa un'oscillazione dello sterzo, ma poi la moto si stabilizza, grazie al baricentro basso. Un miglioramento si potrebbe avere senz'altro sostituendo le sospensioni, mettendo una forcella più robusta, e avanzando i pesi, limitando così le impennate registrate ad ogni cambio di marcia nel corso delle prove di accelerazione.  

 

NON ERA POI COSÌ PERICOLOSA

Torniamo ai giorni nostri (qui parlo io). La Mach III si muove un po' sullo sconnesso, ma poi tutto torna a posto, e i freni frenano il giusto. Sicché questa poveretta non si merita la sua funerea nomea. Ci sono da dire due cose. Chi la guida ha esperienza, e magari mette una pezza alle carenze della ciclistica. Poi la prova è stata fatta in pista, su un asfalto perfetto, con al massimo un po' di sconnesso che però non è mai quello delle nostre statali. Su strada invece le condizioni possono essere molto diverse, e arrivare a palla in una curva lanciati belli allegri da 60 fiammeggianti CV e finire a folle sullo sconnesso... beh, ci credo che qualcuno al tempo abbia avuto i suoi problemini. Occhio, non sono i 60 CV di oggi, di una quattro tempi a iniezione supercontrollata dall'elettronica, ma sono quelli belli incazzati di una 500 2T, la musica cambia.

Io credo che oggi i motociclisti siano tutti più maturi, e che i tempi pionieristici siano finiti. Oggi non si passa più da un giorno all'altro da una 250 quattro tempi spompa a una 500 due tempi incazzata e con la mania dell'impennata, protetti da una camicetta aperta, jeans e Ray-ban. Oggi si va per gradi, si usa più prudenza e più testa. E se il freno frena poco, beh, vuol dire che freni un po' prima. Chi di voi mi fa provare una MACH III? Mi piacerebbe guidarla prima di compiere 70 anni (datevi una mossa).

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