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Troppo avanti per gli anni 80

Kawasaki KLR e KLX story dagli anni 80 ai giorni nostri. Tutto sulle dual sport di Akashi: pregi, difetti, tecnica, foto, aneddoti. In un mondo di moto da enduro dakariane raffreddate ad aria (Honda XL, Yamaha XT, Suzuki DR), Kawasaki entrò nel mercato delle on-off con un prodotto molto tecnologico, forse in anticipo sui tempi

Poco ispirata?

Negli anni 80, le moto più in voga erano le monocilindriche ispirate dalla Dakar. Come le Honda XL, le Yamaha XT e le Suzuki DR, mentre all’epoca le enduro di Kawasaki non esercitavano lo stesso fascino delle altre tre. Sembravano moto realizzate solo per stare nel mercato, per cavalcare la moda, ma senza ispirazione. Ma, poiché si stava meglio quando si stava peggio, se Kawasaki rimettesse in produzione la KLR600 scenderemmo in strada a ballare la giga dalla contentezza perché, oggi, sarebbe considerata una gran bella dual sport (qui le foto di tutte le versioni).

SPIEGHIAMOCI MEGLIO

Come ripetiamo spesso, la Yamaha XT500 non è stata la prima moto del genere strada-sterrato ma è stata la prima ad avere un successo mondiale. La sua cilindrata di 500 cc e la contemporanea nascita dei rally africani ne hanno decretato il successo. Ma monocilindriche a quattro tempi con quelle caratteristiche, sia pure più piccole di cilindrata, esistevano già, come le Honda XL250/350 o la Kawasaki KL250, una bella motina spinta da un monoalbero 2 valvole ad aria. Tuttavia, quando Yamaha centrò il prodotto con la XT500, ricevette una risposta quasi immediata da Honda (con la XL500S) e da Suzuki (con la DR400S), mentre Kawasaki stava a guardare. Quelle moto e le loro eredi entrarono nel loop del sogno dakariano. Ancora oggi, guardando la Yamaha XT600Z Ténéré prima serie, ci batte il cuore. Ogni particolare di quella moto ci trasmette l’idea di essere stato progettato da ingegneri giapponesi pazzi per l’Africa. Invece la Kawasaki KLR600, quando venne presentata, trasmetteva tutt’altra idea: fredda tecnologia, decisamente in anticipo sui tempi. 

la prima nel 1983

La moto venne esposta al Salone di Colonia del 1982, piazzata molto in alto come fascia di mercato, difficile da vedere. Era siglata KLR500, aveva già 564 cc e veniva spacciata come la monocilindrica più potente, veloce e sofisticata. All’epoca il fascino di queste moto africane era la semplicità meccanica: monocilindrici raffreddati ad aria, con testa monoalbero e avviamento a pedale. Già le quattro valvole e il doppio carburatore della Yamaha XT550, così come la sospensione con leveraggio della Honda XL500R, avevano fatto storcere il naso ai puristi ma questa Kawasaki esagerava: testa bialbero e raffreddamento ad acqua, per 50 CV dichiarati e telaio in acciaio con telaietto posteriore scomponibile in alluminio, che costava i 3/2 del telaio stesso. Che senso aveva? Snaturava la categoria e dirottava il sogno africano in una corsa verso le potenze e le raffinatezze tecniche, che andavano bene per le supersportive, non per le enduro on-off. La moto venne riproposta circa un anno dopo in versione definitiva, si chiamava KLR600 ma di fatto era sempre una 564 cc (alesaggio 96 mm, corsa 78 mm). 

A guardarla adesso, era una meraviglia

Oggi siamo abituati ad enduro pluricilindriche, strapotenti e stracomplicate, per cui questa ci appare rustica: avviamento a pedale, un carburatore Keihin da 40 mm, freno posteriore a tamburo, appena 147 kg di peso misurati dal nostro Centro Prove. Che però, all’epoca, vennero giudicati troppi. Col senno di poi (cioè di oggi) questa moto ha una linea bellissima e introduceva il parafango a 45°, con faro triangolare, al quale i più toglievano il pesante portatarga per spostare la targa direttamente sul parafango, migliorando di netto l’estetica (ma poi i vigili mettevano la multa per targa troppo inclinata verso l’alto: la gente si giustificava che tanto poi impennavano, per cui la targa si metteva verticale). Il motore aveva cinque marce e non dichiarava più 50 CV, ma 42 a 7.000 giri: sul nostro banco prova ne erogò circa 38 alla ruota, come le concorrenti dirette (Yamaha XT600 e Honda XL600R), che però erano più semplici, anche se avevano entrambe i carburatori doppi. Lo scarico della KLR era silenzioso, ma il suono era un gradevolissimo pum pum ben scandito quanto ovattato. La moto era comoda e si guidava molto bene, perché su asfalto aveva una ciclistica più stabile e precisa delle concorrenti e in fuoristrada se la cavava egregiamente. I cerchi erano da 21” e 17”, mentre le sospensioni permettevano una corsa alla ruota di 230 mm (la forcella Kayaba da 38 mm) e 220 mm (la ruota posteriore, servita da un sistema Unitrack con leveraggi e monoammortizzatore Kayaba). Invece i freni non erano un granché: davanti c’era un disco da appena 220 mm di diametro e dietro un tamburo. Il serbatoio teneva 11,5 litri. Va detto che questa moto non piaceva ai dakariani, ma ne vendettero parecchie, anche perché costava meno delle altre: stava sotto ai 6.000.000 di lire e attirava chi era insensibile al fascino dell’Africa ma voleva l’agilità di un mono accompagnata dalla tecnologia di una moto moderna. E dire che la pubblicità italiana diceva: “Un suggerimento per vincere la prossima ParigiDakar”, ma nessuna Kawasaki ufficiale si iscrisse alla Dakar 1984 e neanche qualcuna privata. La moto proprio non ispirava pensieri di dune. Però, nel 1985, i francesi Charbonnier e Bernard si iscrissero alla corsa con delle KLR600 private, equipaggiate con dei serbatoi anteriori talmente grandi che invadevano la sella fino a lasciare libero solo il posto del passeggero. Pensate che goduria guidare due moto così! Purtroppo, non ne arrivò in fondo nessuna. La pubblicità parlava anche di un avviamento a pedale “immediato”, ma era un po’ troppo ottimistica. 

ORRORE, l'avviamento elettrico!

Nell’autunno del 1984, infatti, uscì la seconda serie della KRL, sostanzialmente identica tranne che per un particolare devastante: l’avviamento elettrico. Era già stato duro mandare giù il raffreddamento ad acqua, ma l’avviamento elettrico era un vero scandalo. Sui monocilindrici era un’eresia! S’era già visto sulla Guzzi Nuovo Falcone 500 del ‘71 e sulle Italjet 350 Touring Enduro dell’83 ma, su una enduro 600 giapponese, era inaccettabile. La moto venne qualificata, dai puristi, come stradale o fighetta. Ma erano prese di posizione assurde. Il gesto dell’avviamento a pedale del grosso monocilindrico era molto coreografico, però le città erano piene di persone che acquistavano questi pomponi da 600 cc non per farci viaggi o fuoristrada, ma solo per moda. Le usavano come scooter, per i tragitti urbani e impazzivano ogni volta che dovevano avviarle a pedale. Se si voleva continuare a venderle, queste enduro andavano “elettrificate”. In seguito anche gli enduristi più duri e più puri hanno capito che l’avviamento elettrico, in mulattiera, ti allunga la vita. Ma, in quell’autunno 1984, la KLR veniva vista soprattutto come l’interpretazione enduristica di una Casa che aveva vocazione solo per le potentissime supersportive da strada. Basti pensare che, se già 147 kg apparivano eccessivi, la ES sfiorava i 157! Nel 1985, Motociclismo pubblicò un interessante articolo di colore dove un gruppo di redattori andava a farsi un giro in montagna con un mix di moto che non avevano nulla a che fare le une con le altre. Tipo la Kawasaki KLR600ES o la BMW K 100 RS. L’idea era quella di lasciar perdere le prestazioni e i rilevamenti strumentali, ma di far parlare solo la "pancia". Il giro era tutto asfaltato e comprendeva sia l’autostrada, sia i passi dolomitici. La KLR600 fece un figurone: piaceva a tutti, era molto piacevole da guidare e, nel misto, teneva il passo delle maxi. 

SEMPRE PEGGIO

Nell’autunno 1986, la KLR600ES uscì di scena e viene rimpiazzata dalla KLR650, che lasciò basiti soprattutto gli italiani, popolo notoriamente sensibile al bello, per via della sua estetica. Se già la sua meccanica sofisticata lasciava perplessi, figuratevi cosa si poteva pensare del suo orrido cupolone anteriore simile a una scatola, o dell’enorme parafango posteriore, sospeso sopra la ruota come solo la Cupola di San Pietro avrebbe potuto fare. A suo modo, con quel cupolone e con il serbatoio maggiorato a 24 litri, voleva mostrarsi più dakariana della progenitrice, ma era veramente troppo rozza per poter piacere in Italia (Batti Grassotti però ci correrà la Dakar 1988, uscendo di scena dopo avere finito la benzina). Così, caso forse più unico che raro, nel 1989 Kawasaki ingaggiò proprio un disegnatore italiano, Roberto Maccioni, per migliorare il look della KLR650. Roberto rimpiazzò il cupolino/scatolone con una carena fissa al serbatoio, a dire il vero anche lei mica tanto filante. Ma la 650 era un ideale strumento da viaggio in fuoristrada. Il motore era stato maggiorato nell’alesaggio e nella corsa (100 x 83 mm) ed era arrivato a 651 cc, per appena 2 CV effettivi in più alla ruota, ma con un bell’incremento della coppia massima. Da usare offriva prestazioni oneste e un bel tiro ai medi regimi mentre, ai bassi, scalciava un po’. Il carburatore non variava. La sella era comoda, la ciclistica restava da fuoristrada (le sospensioni avevano 230 mm di corsa alla ruota all’avantreno e al retrotreno; sulla Tengai, il posteriore ne aveva 200), i freni erano decisamente migliori (un disco da 250 mm davanti e uno da 200 dietro) e il peso effettivo era praticamente invariato: 160 kg, nonostante le sovrastrutture più grosse e l’abbandono del raffinato telaietto posteriore in tubi quadri di alluminio. Base o Tengai che fosse, da noi non ha avuto un grande successo, sempre a causa dello scarso appeal dakariano. Ma, negli USA, è considerata ancora oggi una moto di culto, la migliore per affrontare viaggi su lunghissime distanze con asfalto e fuoristrada anche difficile. Questo è successo anche perché, da loro, di moto come la Yamaha Ténéré o l’Honda Africa Twin ne venivano importate pochissime. La KLR650 è così amata in certi Paesi meno fighetti dei nostri, che non hanno mai smesso di produrla e importarla. Oggi ha un’estetica ancora più strana rispetto al passato, per via dell’enorme cupolino anteriore che la fa somigliare ad Alien. È ancora a carburatore (sempre lui: il Keihin CVK40!), quindi impossibile da omologare Euro 4. La versione attuale ha 23 litri di serbatoio, sospensioni da 200 mm (forcella) e 185 mm (ruota posteriore) di corsa, ruote da 21” e 17” e freni a disco da 254 mm (ant) e 212 mm (post). Negli USA costa meno di 7.000 dollari. 

KLR570: quela agile

Accanto alla Tengai era stata riproposta la KLR600, ma nella prima versione, quella con il solo avviamento a pedale: era stata rinominata KLR570 ed era disponibile in verde/bianco. La grossa differenza con la progenitrice era l’impatto sul pubblico: erano passati pochi anni ma, se nel 1983 la KLR era apparsa troppo spinta, ecco che cinque anni dopo sembrava semplice. E il suo prezzo era ancora inferiore ai 6.000.000 di lire.

KLX: QUELLa sportiva

Ma poi, nel 1993, arrivarono le due KLX650, ovvero la versione turistica e quella corsaiola di una moto che utilizzava il 651 cc ma gli metteva intorno un più moderno telaio perimetrale. La versione turistica pesava, sulla nostra bilancia, 162 kg, quindi qualcosa in più della Tengai, pur essendo priva di cupolino e avendo un serbatoio da 12 litri. La ciclistica era migliore: oltre al telaio perimetrale qui c’era la forcella Kayaba rovesciata da 43 mm al posto della tradizionale da 38, mentre il motore sfiorava i 42 CV alla ruota. Era una bella moto, assai pratica per tanti utilizzi, ma venne messa in ombra dalla versione corsaiola. All’epoca non c’erano ancora le 450 racing da 48 CV alla ruota o le KTM 690 da oltre 60 CV alla ruota: i 44 della KLX650R erano quasi da record, oltretutto erogati profondamente dai bassi e accompagnati a un peso reale di appena 134 kg. Sospensioni sui 300 mm di corsa, cerchi 21”18”, avviamento solo a pedale, serbatoio da appena 8 litri: era una moto da enduro cattivo, più potente e raffinata rispetto alle Honda XR e Yamaha TT ma meno agile e leggera delle Husqvarna TE e KTM LC4: la sua destinazione ideale, finalmente, è stata la Dakar, come mezzo ideale per i privati. Guido Maletti e Aldo Winkler la usarono con successo, Maletti addirittura finendo al sesto posto assoluto, nel '96.

TORNA LA KLR

Ma ormai le grosse mono da enduro interessavano solo come moto semplici ed economiche e così, nel 1995, le KLX uscirono di scena per lasciare il posto ad una nuova versione della KLR650, derivata dalla Tengai, ma meno potente (37 CV alla ruota), più pesante (178 kg effettivi a secco), priva di cupolino ed equipaggiata con un serbatoio da 14 litri al posto di 24. I freni però erano stati potenziati (280 mm anteriore e 240 mm posteriore), mentre la corsa alla ruota delle sospensioni era diminuita (220 mm davanti e 200 mm dietro). Rimasta in produzione fino a una decina di anni fa, nonostante l’aspetto un po’ dimesso era una buona dual sport: la posizione di guida era ottima in fuoristrada, le sospensioni erano morbide ma non troppo, il comfort su strada era elevato e la moto restava stabile anche coi bagagli. 

LE PICCOLINE

Le KLR/KLX hanno avuto delle sorelline, eredi della KL250. La KLR250 del 1985 era una piccola fotocopia della 600, ma le più interessanti erano le KLX, specie la 300 di fine anni 90, leggerissima e versatile, adatta all'enduro impegnativo ma robusta e duratura. Oggi in Italia è ancora disponibile la KLX250, in versione meno potente ed economica, ottima come dual sport per chi vuole una moto facile, robusta e poco costosa.
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