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Il carattere delle moto, così difficile da definire

Puoi dire che una moto va bene perché è veloce o perché è maneggevole, ma come fai a spiegare che ti piace perché "ha carattere"? Cosa sarebbe il carattere di una moto?

Il carattere delle moto, così difficile da definire

Credo che le moto si possano dividere in quattro categorie. La prima: le moto che vengono apprezzate solo perché permettono di andare al lavoro senza imbottigliarsi nel traffico. Questa parte del discorso è triste, perciò la chiudo qua.

 

A, LE MOTO DA SPARO

La seconda categoria la identificherò con la lettera A. Riguarda le moto che ci danno piacere perché ci permettono di andare forte. La maggior parte di noi sono smanettoni che cercano di andare alla maggiore velocità possibile, quindi la moto che li rende felici è potente, veloce, stabile, sicura in piega, ben frenata. Ed è destinata a finire dimenticata, quando il mercato, anno dopo anno, sforna moto sempre migliori. Una tipica moto A è la BMW S1000RR che, appena uscita, ha sbaragliato la concorrenza non solo perché era la più potente come motore, ma anche per il grande equilibrio ciclistico, aiutato da un pacchetto elettronico che la rendeva più sicura, facile ed efficace. Ma poi, in realtà, nella categoria A ci metterei non solo le moto da sparo, ma quelle, semplicemente, divertenti da guidare. E in una sottosezione della lettera A quelle appaganti esteticamente.

 

B, COMPAGNA DI VIAGGIO

Un'altra attività che fa godere i motociclisti è il viaggio. Averne uno in testa e portarlo a compimento fa parte delle gioie della vita. La moto, in questo caso, viene scelta di conseguenza: dev'essere robusta, affidabile, comoda, magari anche in due, deve poter portare un sacco di bagagli. Potrebbe essere un'enduro stradale, se si hanno in mente percorsi sterrati in regioni isolate. Si tratta di un campo dove, quasi sempre, l'aspetto pratico predomina su quello ludico-estetico. Come nel caso della Suzuki V-Strom, ad esempio, che viene acquistata da chi in moto ci va per viaggiare e non per farsi vedere.

 

C, CHE CARATTERE

Adesso veniamo al discorso che più mi intriga, ovvero quelle moto che scombussolano chi le guida non per la velocità o per altri parametri, ma perché sono "gustose". Il problema è che io sono ossessionato da questa storia del gustoso, ma non so definirla. Se penso a tutte le moto che metterei in questa categoria, mi rendo conto che non hanno niente in comune. Infatti: guardate la gallery... La moto gustosa è quella che ti parla, che ti trasmette qualcosa semplicemente sedendosi sopra di lei e accendendo il motore. Percepisci che non è un freddo oggetto meccanico, hai la sensazione che sia una cosa viva, con un'anima. Ma quali sono le caratteristiche tecniche tali per cui una moto ti trasmette questa cosa assurda? Non lo so. Come ho detto, non lo so spiegare (ndr: a volte, forse perché è più comodo generalizzare che cercare spiegazioni, si formano dei pregiudizi difficili poi da contestare, tipo quelli sulle giapponesi senza carattere...)

Durante la comparativa delle maxienduro in Tunisia, ma anche un anno fa in Grecia (i video: parte 1parte 2), la Guzzi Stelvio mi dava proprio quella sensazione di animale vivo e pulsante, tale per cui i suoi difetti passavano allegramente in secondo piano.

Logicamente, non è che se una moto è A non può essere C. Un esempio di moto che riesce ad essere sia A, sia B sia C è la KTM 1190 Adventure R: emoziona a livello animale, è divertente se vuoi correre e ti fa fare viaggi su ogni terreno.

 

MV AGUSTA 125 S

Alcune moto manco devi accenderle, anzi, basta guardarle, senza salirci sopra, perché "parlino". Nell'estate del 1985, io e mio fratello sbavavamo già per le moto e io mi ero appena comprato una Gilera 125 Arcore, moto assai lenta, ma con un carattere fortissimo, tanto che mi piacerebbe andarci in giro ancora oggi. Un giorno, nelle campagne intorno a Pesaro, entrammo in un'officina di automobili per chiedere informazioni su un indirizzo e restammo di stucco davanti a una MV Agusta 125 che un ragazzo stava preparando. Era tutta bianca e ogni suo particolare ci affascinava: la carena sottile come un foglio di carta, il contagiri bianco montato storto, come sulle moto da corsa degli anni 70, le pedane arretrate senza gomma, i semimanubri inclinatissimi con manopole sottili, le leve lunghe sagomate per ospitare le dita, i bulloni "bloccati" da filo di ferro intrecciato per non svitarsi con le vibrazioni, lo scarico con cono e controcono... Ci mettemmo a sbavare come molossi, eppure era una semplicissima aste e bilancieri da 13 CV scarsi, quando sul mercato c'erano già 125 da oltre 25 CV come l'Aprilia AS-R o la Honda NS-F (poi arrivarono le 125 “da sparo anni ’90...). Ma questa diceva delle cose che le altre manco conoscevano. Ci si vedeva un lavoro manuale, artigianale, per dare alla moto un'anima pistaiola da parte di gente che la pista la masticava a pranzo e cena. Cose che affascinavano perché originate dalla pratica, dalla vita vissuta. Estetica figlia della funzione. In seguito m'è capitato ancora di provare questo "malessere da libidine" di fronte a una moto: la Cagiva Elefant che vinse la Dakar nel 1990. Ogni particolare su cui mi cadeva l'occhio era figlio di una storia, di un ragionamento, di un'avventura che durava da sei anni. Per questo, dopo avere visto quella MV, mio fratello decise che avrebbe comprato una moto come quella, ma poi capimmo che la nostra vocazione erano i viaggi in sterrato e allora si prese una Honda XL125SD.

 

ITALIA CONTRO GIAPPONE

È dagli anni Ottanta che leggo, sulle riviste, questa storia che le moto italiane emozionano ma danno problemi, mentre le giapponesi sono fredde ma affidabili (lo abbiamo già detto, no?). Non ho fatto altro che leggerla, per trent'anni e adesso potrebbe anche succedere che la stia tramandando a qualche 14enne, nel caso stesse leggendo 'sta roba. Nel frattempo, per fortuna, l'affidabilità delle italiane è migliorata, ma la storia che sono moto di cuore la si continua a sentire. Beh, è vera. Me ne sono reso conto fin dal 1986, quando possedevo da due anni la Gilera 125 Arcore e mio fratello, come ho detto prima, si prese una Honda XL125SD. Entrambe monocilindriche a quattro tempi, avevano prestazioni simili ma erano diverse come il sole e la luna e questa cosa si percepiva subito. La mia moto era un progetto del 1971 e la sua di oltre 10 anni dopo, ma non erano lì le differenze che ci colpivano. Era una questione di tatto, di vibrazioni, di udito. Da allora, ho sempre percepito questa diversità tra le moto italiane e quelle giapponesi. Le Guzzi, le Ducati, le Aprilia e le KTM (che sono austriache, lo so) hanno quel qualcosa di vivo che manca nelle moto giapponesi, eccezion fatta per la Yamaha MT-09, l'unica nippa con un carattere all'italiana (infatti buona parte di questi discorsi li ritrovate nel Sentiero Pensiero dedicato alla MT-09). Però sono anni che io compro solo moto giapponesi, dopo devastanti esperienze con Honda Italia e Moto Morini, negli anni Ottanta. Ovviamente, spero che oggi le cose siano cambiate.

 

TORNARE A CASA

Io posseggo due moto, la Honda Africa Twin e la Suzuki DR-Z400S. Vado al lavoro tutti i giorni con una di loro due. Il percorso che faccio per andare in redazione è divertente: 13 km, un solo semaforo, poco traffico (incredibile, per essere alla periferia di Milano) e una tratta piena di curve in mezzo alla campagna. Entrambe le moto vanno molto bene su questa tratta. Solo che se sto spegnendo il computer per tornare a casa e sono con la Suzuki, dico "vabbe'". Se sono con l'Africa Twin,  sono emozionato. Questa moto appartiene alla grandissima alla categoria C, mentre la DR-Z è mesta come uno scooter. Appartiene alla categoria B, ovvero le moto che rendono felici non per come sono, ma per ciò che ti permettono di fare. La DR-Z è una vera moto totale, c'è chi ci ha fatto la Alaska-Terra del Fuoco (come se avesse avuto una maxienduro) e chi la prova estrema dell'Erzberg (roba da enduro racing a due tempi); ed anche io l'ho usata tanto in autostrada, anche per 700 km di fila, quanto in mulattiere impestatissime. Quindi, a questa moto voglio un bene dell'anima, per i viaggi che mi permette di fare. Inoltre è divertente, perché è agile, il motore è pronto e pieno fin dai bassi regimi e la posizione è panoramica. Ma non ha carattere, non "parla". Come metto la prima e mi dirigo verso casa, non godo. Al contrario, la vecchia Africona mi gusta tantissimo solo ad andarci in prima marcia a 5 km/h.

 

AFRICA TWIN RD04

Se state cercando una Honda Africa Twin, delle quattro serie in cui è stata prodotta (RD03, RD04, RD07 e RD07A) tutti vi diranno di lasciare perdere la RD04, quella "sbagliata". Lo hanno detto anche a me, ma le 07 costavano troppo e di 03 non ne trovavo, per cui ho capitolato e preso quella sbagliata. Dato che mio fratello possiede una 03, è stato inevitabile farsi del male saltando dalla mia alla sua e viceversa. Tanto per chiarirsi: la RD03 è stata la prima della saga Africa Twin, ovvero la 650 cc, con le forme snelle e i colori HRC (qui la sua storia). La RD04 di fine 1989 è stata la prima delle 750 ed è stata creata come risposta alla Yamaha Super Ténéré. La RD03 del 1987 aveva circa 55 CV, la Super T oltre 70. Oggi che i valori in gioco stanno tra i 100 e i 150 CV, la potenza della Super T fa ridere ma, all'epoca, quei 15 CV di differenza promettevano mari e monti. Così, alla Honda decisero che era giunto il momento di potenziare l'Africa Twin. Guidando le due sorelle, si ha la sensazione che questa gente, una volta intorno al tavolo delle decisioni, abbia detto: "La RD03 va troppo bene, per cui dobbiamo rovinarla". Il motore crebbe di 100 cc e di circa 6 CV, ma diversi particolari, a partire dall'albero motore, vennero irrobustiti e appesantiti. L'avantreno venne caricato diminuendo la corsa della forcella e venne applicato un secondo freno a disco. Aumentare il peso di albero motore e freni fa percepire una sensazione superiore ai chili effettivi, perché sono masse rotanti e perché l'inerzia dell'albero motore influisce i cambi di direzione: più è pesante e meno la moto ha voglia di obbedire agli ordini. Sicché, il peso aumentò di ben 16 kg, ma sembravano molto di più. Scendevi dalla 650, salivi sulla 750 e sembrava di passare da una moto a un camion, perché percepivi un baricentro molto più alto e un peso maggiore sull'avantreno. Scendevi dalla 750, salivi sulla 650 e sembrava di passare da una bicilindrica a una monocilindrica. Anche l'estetica trasmetteva questa sensazione di maggiore peso, con la carena allargata, il parabrezza alzato e le fiancatine ingrossate a imitare i serbatoi posteriori. In Honda si resero conto che avevano sbagliato e così, nel 1993, uscì sul mercato la terza serie, la RD07, con un nuovo telaio che concentrava diverse cose verso il basso, con il filtro dell'aria dietro il cannotto e il serbatoio con i fianchi arrotondati (diversa gente si lamentava che puntava le ginocchia contro due spigoli, con le 03 e 04), che teneva due litri in meno ma si stringeva meglio. La RD07 è ancora più maneggevole della 650, ha il baricentro molto basso ed è decisamente la migliore delle Africone. Eppure, quando la guido godo meno che con le altre due e anche questo è difficile da spiegare. Intanto, devo dire che, in termini assoluti, anche la RD04 è una moto eccellente: robusta, comoda e gustosa da guidare. Solo che, rispetto alle altre Africa Twin, sembra molto meno maneggevole; è come se fosse la sorella meno gnocca di quattro sorelle tutte gnocche, non so se mi capite. Tenete conto che è sempre stato con una RD04 che il nostro tester delle enduro bicilindriche, Francesco Catanese, ha fatto tutti quei rally e quelle gare di cross country che lo hanno reso uno dei più noti "maxisti" d'Italia. Lui con la RD04 girava in pista da cross facendo salti pazzeschi, con sospensioni modificate poco (forcella di serie con molle e olio diverse, mono cambiato). Perché prendeva la RD04? Per gli stessi motivi miei: era quella che costava meno sul mercato dell'usato. A me non piacciono le moto pesanti davanti e la 04 lo è, ma ha comunque l'agilità delle enduro leggere, quelle che permettono di fare i tornanti stringendo la traiettoria; e tutto questo nonostante sembri un camion, rispetto alle altre. La RD07 ha una posizione di guida più affossata rispetto alla mia, quindi dà meno la sensazione di essere su un mezzo da rally. Sulla mia ti senti più su e, quando scendi in piega, il fatto che sia alta di sella e di baricentro ti fa percepire maggiormente la sensazione della piega, "il folle abbandono" alla Omobono Tenni, la caduta dalla cima di un palazzo. Sensazione che sulla mia moto è aumentata dopo che ho fatto allungare le sospensioni, dato che in fuoristrada toccavo sempre sotto. Quindi è una moto che mi fa curvare più lentamente rispetto alle sorelle, ma che mi dà più gusto. In fuoristrada il divertimento sta nella tecnica di guida che ti impone, perché devi cercare di tenerla dritta. Insomma, in questo caso la irrazionale sensazione di gusto deriva dall'avere il baricentro altissimo, che impone una guida ragionata e che dà il gusto delle montagne russe quando scendi in piega. Se pensate che sia scemo (e mi sa che ci state prendendo), pensate che c'è gente che apprezza la primissima serie della Triumph Tiger, quella dei primi anni 90, per gli stessi motivi...

 

ETERNO SCONTENTO

Ho un amico, Luca Ghigliano, col quale mi trovo spesso a discutere su questa storia del gusto che conta più delle prestazioni. Aveva una Suzuki TL1000S, moto sportiva considerata sempre un po' troppo esuberante come forme e pesi, con la quale si divertiva alla follia, poi passò a una Honda VTR1000R SP02, che andava molto più forte sia in rettilineo sia in curva, ma la trovò meno gustosa della Suzuki. Poi ha deciso di darsi al fuoristrada turistico ed ha preso una Yamaha Ténéré 660, che gli ha dato immense soddisfazioni sul piano del piacere di guida, tanto da tornare a lei dopo avere cercato di tradirla con una Triumph Tiger 800 e una Suzuki DR-Z400S (possendendole entrambe, hai una versatilità superiore rispetto alla sola Ténéré). Per lui il piacere di guida conta così tanto, che prevalica l'aspetto pratico.

 

IL FASCINO DELLE MOTO INGLESI

Non è un mistero che i giapponesi, prima di diventare "quelli delle quattro cilindri", per le loro prime maxi hanno copiato le bicilindriche inglesi degli anni Sessanta. Lo ha fatto anche Kawasaki. Nel 1999 ha presentato la W650, replica della W1 del '66, che all'epoca era la giapponese di maggiore cubatura e che traeva ispirazione dalla BSA A10 650 Rocket. Queste operazioni vintage dividono le folle perché moltissime persone, me compreso, sono affascinate dalle forme delle maxi inglesi di 50 anni fa, ma ci si domanda se non sia pacchiano fare un oggetto moderno che imita, nell'estetica, quelli del passato. Molti di noi non apprezzano l'estetica delle moto moderne e rimpiangono le forme del passato ma, in realtà, questo discorso si estende a tanti altri prodotti: guardate quanti oggetti moderni e tecnologici si ispirano a quelli di 40 o 50 anni fa, come la Mini Cooper, le radio Tivoli, le fotocamere Fuji della serie X. La Kawasaki W1 aveva un bicilindrico in linea raffreddato ad aria, con alesaggio e corsa praticamente uguali (74 x 72,6), mentre la BSA era la classica corsa lunga inglese (70 x 84), per cui si può dire che in Kawasaki copiavano, ma tendevano anche a rendere più attuale il prodotto. Oggi, in quasi tutti i motori in commercio l'alesaggio è molto più elevato della corsa. L'imbiellaggio era a 360°, ovvero i due pistoni salivano e scendevano insieme, ma scoppiavano in fasi diverse: questa fasatura è scomparsa da tempo, per via delle vibrazioni che comporta. La distribuzione era ad aste e bilancieri, con due valvole in testa per cilindro. La versione di 33 anni dopo non era una copia fedele, come dimostrato da particolari irriverenti come il contakm digitale annegato nella strumentazione retrò, o dalla distribuzione monoalbero a 4 valvole per cilindro. Eppure, lo sforzo di fare un prodotto col fascino dell'antico era altrettanto evidente: l'albero a camme in testa non era comandato dalla solita catena, ma da ingranaggi, albero e coppie coniche, come sui monoalbero spinti degli anni 70. La fasatura era a 360° e le misure di alesaggio e corsa erano un clamoroso omaggio alla scuola inglese del tempo che fu, con la corsa realmente lunga: 83 mm, contro i 72 mm dell'alesaggio. La sensazione era che in Kawasaki volessero offrire le sensazioni di una vera moto "vecchia" e così ho atteso con ansia che si potesse provarla. Quando è arrivata in redazione, i miei colleghi si sono divisi in due fazioni: chi vomitava e chi ne era piacevolmente colpito. Infatti, come in tutte le redazioni i tester sono molto veloci, ma c'è chi è votato 100% alla causa del gas aperto e chi invece ha la mentalità aperta e sa apprezzare le varie sfaccettature del motociclismo. Gente che in pista tocca col gomito, ma che si commuove a vedere il paesaggio dalla sella di una Harley. Quando, finalmente, potei usare questa moto i colleghi "aperti" mi dissero: "Prendila per quello che è: è talmente anni Sessanta che anche in curva ricorda una moto del passato, ma è un'esperienza interessantissima". Feci un giro di 250 km, tra Milano, il Piemonte e l'Emilia. Mi resi conto che in curva impegnava tanto per piegare poco, ma mi fece godere in maniera inaudita. Il motore a corsa lunga funzionava proprio come mi ero immaginato. Sembrava quasi di sentire il pistone che, dopo una corsa di un minuto, faceva un PUM solenne, magnifico, imperiale, poi ci pensava un attimo e tornava a farsi il minuto di corsa all'ingiù. Il motore era elastico, riprendeva dai regimi più bassi senza sussulti ed era una goduria. Arrivava ad erogare 50 CV, che per la massa della popolazione sono pochissimi, ma solo perché sono tutti vittima di un'aberrazione che porta a considerare la potenza minima per andare in giro intorno ai 120 CV. Con 50 CV fai tutto quello che vuoi, compreso centrare un albero a 190 km/h, o battere al semaforo una Porsche boxer da tre litri. La moto, comunque, era strana. Strana come postura in sella, strana per come faceva le curve, ma mi venne una gran voglia di comprarla. Non è mai stata venduta in grandi numeri, ma è ancora in vendita ai giorni nostri, con motore maggiorato a 800 cc aumentando di 5 mm l'alesaggio (e passando da 676 a 773 cc), qualche CV in meno e l'iniezione elettronica. Ovviamente i puristi, quelli che le inglesi le hanno guidate negli anni d'oro, non apprezzano queste operazioni vintage ma, per uno come me, che non ha mai guidato quelle moto ma che ne apprezza lo stile, la W650 è una moto eccezionale, per le sensazioni che dà.

 

INGLESI CHE RIFANNO LE INGLESI

Se già uno ama la Kawasaki W650, figuratevi cosa può fare quando la rinata Triumph decide di realizzare una Bonneville ispirata a quella del passato. Non si trattava della stessa Triumph degli anni 60, ma comunque di inglesi che rifacevano una moto inglese. Fin dalla sua apparizione, però (2001), la Bonneville 790 è apparsa più moderna della Kawasaki W650, pur avendo anche lei la fasatura a 360° (scomparsa su alcuni modelli successivi). L'alesaggio era maggiore della corsa (86x68 mm), la distribuzione da aste e bilancieri 2 valvole passava a bialbero 4 valvole a catena e l'impianto di iniezione elettronica era nascosto da una paratia a forma di finto carburatore. In Triumph spiegarono che, dopo lunghi ragionamenti, avevano deciso di partire dalla T120 di 650 cc, prodotta tra il 1959 e il 1975 (con una T120, nel 1968, il mitico saltatore Evel Knievel si era plurifratturato saltando le fontane del Caesars Palace di Las Vegas) e di realizzarne la versione 2001, ovvero "cosa questa moto sarebbe diventata se la produzione non fosse mai cessata". Ancora oggi vediamo prodotte auto e moto risalenti a quegli anni e aggiornate nel tempo, ma mai rivoluzionate, come le Porsche boxer, le Land Rover Defender, le Moto Guzzi, le Ducati ad aria, le Harley-Davidson.

 

INGLESE CONTRO AMERICANA

Appena la nuova Bonneville uscì non stetti nella pelle per provarla, anche perché è una T120 la moto volante di Hagrid Rubeus, l'orrido omone peloso, amico di Harry Potter, al quale milioni di persone dicono che io somiglierei come una goccia d'acqua. Ma sono passati anni e non m'è mai capitata l'occasione di guidarne una. Nel 2007 mi hanno proposto di scrivere la comparativa tra una Bonneville (nel frattempo cresciuta a 865 cc) e la nuova Harley-Davidson 1200 Nightster, quella "coi fari dentro le frecce". Ne ero felicissimo: della Harley non mi importava nulla, ma finalmente avrei provato la Bonneville! Di Harley ne avevo guidate poche e non m'erano mai piaciute.

Fin da subito, apparve evidente la superiorità della Triumph. Era talmente perfetta, da sembrare giapponese. Comoda, fluida, elastica, divertente, facile e intuitiva. Mentre la Harley confermava la pessima fama del suo marchio in termini di frenata e tenuta di strada. Eppure, dopo un po' che le guidavo, saltando al volo da una all'altra, confessai, ascoltando incredulo le mie parole: "Questa Harley non sta in strada, ma è lei che comprerei". La Bonneville andava benissimo ma, se avessi chiuso gli occhi, non avrei capito che era una vintage inglese. Non c'entrava nulla con la Kawasaki W650. Andava molto meglio. Ma mi piaceva molto meno! Il motore non aveva "quella" pistonata, la ciclistica non era così strana. Invece, della Harley ricordo le scariche di piacere che provavo ruotando la manopola del gas, che era scorrevolissima. Bastava ruotarla di un centimetro per sentire le straordinarie pulsazioni del V2 americano, il motore più vivo e "parlante" col quale mi sia mai relazionato. Da zero a dieci, davo dodici al motore e quattro alla ciclistica, per cui di media la moto si prendeva un bell'otto. Tornai a casa sconvolto ed ebbi la conferma che, quando si parla di moto, nulla si può dare per scontato.

 

LA TESI DI LAUREA

Un anno fa siamo saliti sul passo del Faiallo per la tesi di laurea in moto-carattere. La prova di moto considerate vintage, anche se molto diverse tra loro. Quelle che si comprano in primis per l'estetica e per le sensazioni e non per quello che ci si deve fare. C'erano le english-inspired, quindi non solo la Kawasaki W800 e la Triumph Bonneville 865 in versione Scrambler, ma anche la strepitosa Norton Commando come la fanno adesso, col motore da 960 cc. C'era l'erede della Harley-Davidson Nightster, cioè la Forty Eight da 1.200 cc. C'era la Guzzi V7 Special, che da sempre considero la risposta italiana alla Harley-Davidson Sportster. E poi c'erano le moto agli antipodi: la perfetta ma asettica Honda CB1100 e la Royal Enfield 500 Bullet Desert Storm. Com'è andata l'ho già raccontato in un Sentiero Pensiero (leggete qui), per cui mi limiterò ad accennare che la Honda vinse la categoria A (quella degli smanettoni) perché era perfetta e piacevolissima da guidare in curva, ma arrivò ultima nella categoria C, quella irrazionale del carattere, surclassata dalle rivali. La Royal Enfield iniziò alla grande, dimostrandosi un vero animale da categoria C, ma si rivelò troppo impegnativa se usata al di sopra dei 60 km/h, specie per le vibrazioni devastanti. Esteticamente era un mix tra una bellissima moto d'epoca e una moto da viaggio in terre remote, quindi da zero a dieci le diedi tredici. Appena la misi in moto, usando il pedale e sentii come pulsava ai bassissimi regimi, mi esaltai ai massimi livelli e subito mi venne l'impulsiva voglia di acquistarla seduta stante. Ma poi, usandola veramente, le vibrazioni mi misero ko. E dire che io sono uno che le vibrazioni non le percepisce quasi mai, eccezion fatta per la KTM LC4 640 prima che le mettessero il contralbero (però le sopportavo). Una classica conversazione con me è: "Non ho comprato quella moto perché vibrava". "Ah sì? Non me n'ero accorto". La Royal Enfield mi verrebbe voglia di usarla come una 125 e non è una presa in giro: le ottavo di litro sono lente e non possono andare in autostrada, per cui, qualsiasi tragitto tu abbia in mente, non lo puoi fare in fretta. Ti devi centellinare tutte le strade statali e, in questo modo, il viaggio te lo vivi veramente. Io la Enfield la userei così e allora me la godrei, del resto oggi va di moda noleggiarla per viaggiare in India su stradine lente e trafficate ed è per questo che poi la gente torna esaltata da quella moto. Le maxi enduro si sono evolute nella direzione di fare meglio le autostrade e questa cosa è da suicidio; è come un alpinista che cambia la sua attrezzatura per essere più elegante in funivia, rinunciando a scalare le vette. Nei nostri viaggi ci siamo tarati nel dover percorrere grandi distanze in poco tempo, quindi non-viaggiando. In quell'occasione, sul Faiallo, la Enfield fu stuprata, perché costretta a tararsi su percorsi e andature che non le competevano. Quel giorno io ero concentratissimo sulle sensazioni e la vittoria nella classe C se la prese a mani basse la Harley-Davidson, pur con le sue assurde pedane stra-avanzate che strisciavano in tutte le curve. Ma la Honda era troppo piacevole da guidare in curva, per cui tornai a casa con grande confusione. La Guzzi emozionava quasi come una Harley, ma in curva era molto più divertente, per cui vinse lei, nella mia personalissima classifica. La Harley era come una donna alla Botero, bella grassa, che all'inizio manco guardi ma poi scopri che ti innamori perché ha una personalità immensa; la Honda era una top model bellissima ma glaciale. Mentre ero in bilico tra questi due modi diversissimi di realizzare moto fantastiche, siamo tornati in redazione, abbiamo restituito le moto e sono tornato a casa con la mia fida, ma mesta, Suzuki DR-Z. La poesia è svanita. La moto era totalmente asettica, rispetto alle altre. Ma i posti idilliaci che lei mi permette di raggiungere, partendo direttamente da casa, le naked vintage possono solo sognarseli.

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