Statistiche web

Fintentreffen, l'imitazione dell'Elefanten

C'eravamo tanto amati, ma tu non cambi mai, disse Ciaccia all'Elefante. E lo tradì, per mete sconosciute. Finora sono cinque le edizioni di questo raduno itinerante, casereccio e frequentato da 5/10 persone al massimo

Fintentreffen Parte 1

Questo Sentiero Pensiero parla di viaggi e raduni invernali: Mario ha un milione di aneddoti da raccontare e dividiamo il suo articolo in due parti.

Per leggere la seconda cliccate qui.

 

 

Come spiegavo nel "Sentiero Pensiero" di un mesetto fa (cliccate qui), la mia grande passione per l'Elefantentreffen  iniziò a trasformarsi nel desiderio di provare esperienze simili, ma da altre parti. E mi domandavo: quanta gente la penserà come me? Non sarà mai venuto in mente a nessuno di spostare ogni anno la sede dell'Elefante, come si fa con le Olimpiadi? Quando andai al nono dei miei Elefanti, nel 2007, ero un bambino felice e senza pensieri ma, nel 2009, in occasione del decimo, mi resi conto che avevo la nausea.

 

INTANTO, L'ELETTRICO NON È D'ACCORDO

Stavo guidando dalle parti di Memmingen, in Germania e avevo freddo, perché l'abbigliamento elettrico, per la prima volta dopo 8 anni, mi aveva tradito. Questo è una droga: per i primi tre Treffen avevo fatto senza di lui (come tutti) e trovavo normale guidare sopportando brividini di freddo destinati a diventare brividoni fino alla prossima sosta tè. Poi, nel 2001, scoprii questa meraviglia, tale per cui guidi per ore senza brividini. Certe volte non sembra neanche acceso, solo che non hai freddo. Fino al 2009 ha sempre funzionato impeccabilmente. Da allora, è diventato fallace. Ogni volta parto elettrificato, ma nei primi km succede qualcosa che mi fa proseguire senza: può essere una resistenza che si interrompe, oppure l'alternatore della moto che ha un problema psicologico. Il messaggio è chiaro: all'abbigliamento elettrico non è andato giù che io abbia tradito l'Elefanten per una sua spudorata imitazione, il Finten (qui la gallery).

 

LA NOIA

Comunque: ero in zona Memmingen, la parte divertente del viaggio era finita (avevo fatto la tripletta di passi Maloja-Julier-Lenzerheide) e mi stava venendo la nausea. Pensavo: "Che palle di autostrada. Che palle di paesaggio. Non cambierà mai fino a Iggensbach, tra 270 km. Sono stufo, non ho voglia di guidare fin laggiù, voglio cambiare". Mi misi a pensare a quali località innevate sarebbero state perfette per una tendopoli di motociclisti. Il lago di Montespluga, in cima al Lago di Como. La Piana di Marcesina, sull'Altopiano di Asiago. Il Pian Grande di Castelluccio di Norcia, tra Marche e Umbria. Il Lago di Misurina, vicino a Cortina. Il Piano del Rascino, vicino a L'Aquila. Campo Imperatore, sotto il Gran Sasso. Rocca Calascio o i Piani di Pezza, in Abruzzo. I ghiaioni del Tagliamento, del Meduna e del Cellina, in Friuli. Camposecco, sui Simbruini, in Lazio. Val d'Oten, in Veneto. Il Bruncu Spina, in Sardegna. Piano Laceno, in Campania. La Valle Tacina, sulla Sila Piccola... Me ne vennero in mente per tutto il viaggio poi, quando arrivai in fondo alla Fossa e stavo finendo di montare la tenda, ecco che arrivò questo Emanuele Pasculli Avetta, di Roma, che mi disse: "Ma tu non hai mai pensato a un Elefante fatto in Italia?". Fu una coincidenza incredibile, era il segnale divino che mi spingeva a mollare l'Elefante per una cosa mia, il Finten.

 

2010, VALTELLINA ED ENGADINA

La prima idea fu quella di identificare il Posto, lanciare in internet le coordinate Gps e che ciascuno ci andasse per conto suo e per la strada che giudicava migliore, come all'Elefante. Ma ciascuno chi? Avevo un ristretto numero di conoscenti che andavano a Loh e buona parte di loro era disposta a fare quella faticaccia e a congelarsi solo per l'Elefanten, che ha un notevole prestigio, è conosciuto da tutti, è una signora tacca sul fucile. Mi sembrava di essere uno che cerca di convincere la gente a lasciare la Dakar per l'Africa Race... L'idea piacque solo a quel ristretto numero di amici che viene soprannominato Coglioni d'Inverno per via di questa nostra passione per il freddo.

Sicché, visto che eravamo quattro gatti, abbiamo deciso che il percorso andava fatto tutti insieme e che doveva essere memorabile. E decidemmo anche che avremmo fatto il Finten nello stesso week end dell'Elefante. Non avrei più usato la Honda Africa Twin, ma solo la Suzuki DR-Z400. La differenza di trazione e controllo dell'avantreno tra le due moto, in caso di nevicata, era incredibile. Ok, in autostrada la Suzukina era molto più lenta e scomoda, ma era comunque commestibile. Poi decisi di fare a meno dell’abbigliamento elettrico, deluso dal guasto dell’anno prima.

Quell'anno, era il 2010, a fine gennaio arrivò un'ondata di freddo. Era quello che volevamo, anche se spiegarlo razionalmente senza passare per sado-masochisti è impossibile. Ma quel week end io non so cosa avessi, forse dovevo chiudere qualche pezzo per Motociclismo (io lavoro prevalentemente per Motociclismo FUORIstrada), fatto sta che non potevo prendermi il venerdì di ferie. E partendo il venerdì sera, con appena due giorni, che giro avremmo potuto fare? Pensai alla Valtellina: venerdì sera tendata a Montespluga (perché è l'Antartide italiana), quindi quattro passi in fila - Maloja, Bernina, Foscagno, Eira – e discesa a Livigno, famosa per i suoi inverni polari. Lì avevo già fatto una biciclettata di Capodanno con pernottamento in tenda ed era un posto perfetto anche per il Finten. La domenica avremmo fatto il tunnel del Gallo, l'Engadina fino in Austria e saremmo tornati a Milano via passi Resia (col campanile che emerge da un lago gelato), Palade e Tonale. Otto passi tra i 1.500 e gli oltre 2.300 m, nel pieno di un'ondata di freddo. Bello, no? Alla fine, per essere un giro da un week end, non era affatto corto: da Milano erano 900 km in tutto, 500 dei quali nell’ultima tappa.

Come compagni di viaggio avevo, ovviamente, ex compagni di Treffen, a partire da mio fratello Piero (che aveva partecipato a cinque Elefanti ma era felicissimo di sposare quest'altra causa), Ago Belfranz (aveva fatto due Elefanti e avrebbe voluto farne altri, ma accettò di provare la nuova formula) e Carlo "Baypiss" Acquistapace (un Elefante gli era bastato e avanzato e non chiedeva di meglio che girare in lungo e in largo cambiando meta ogni volta). Poi c'era Franz Ferro, un amico che non aveva mai fatto giri invernali.

 

MILLE APPUNTAMENTI

Io vivevo a Milano, Baypiss a Seregno, mio fratello a Empoli, Ago Belfranz a Firenze e Franz Ferro a Bolzano. Io potevo partire solo in tarda serata del giovedì, mio fratello all'ora di pranzo del giovedì, Ago Belfranz la mattina del giovedì, Baypiss solo la sera del sabato e Ferro la mattina del venerdì. Darsi appuntamento era complicato!

Ago Belfranz partì la mattina da Firenze e decise di traversare gli Appennini attraverso il Passo di Pradarena, un 1.600 m posto tra Garfagnana (Toscana) ed Emilia. Alle 17 mi telefonò da Parma: "Sto arrivando". Lo aspettavo in redazione. Ma, alle 20.30, ancora non c'era, mentre fuori dalla finestra si vedevano i fiocchi scendere. Fantastico, partire da Milano al buio ma sotto la neve!

Alle 21, Aldo Ballerini scese in cortile a fare qualsiasi cosa (non ricordo: una telefonata, una boccata d'aria, un'occhiata al fondo innevato) e vide un tizio in moto che aspettava che qualche anima pia gli aprisse la sbarra della Edisport. Il tizio era su una Honda XR400R con serbatoio maggiorato, borse in alluminio Zega, copertina per le gambe, paramani ed era vestito da Treffer, ovvero da barbone. Ballerini è un uomo elegante, ha diretto per anni la rivista Super Wheels, la sua passione sono le moto strapotenti da strada e da pista, per quelli come noi nutre lo schifo totale. Infatti, con disgusto indicibile, indicò lo zingaro là fuori e mi disse: "Quello penso che voglia te, è il tuo genere".

 

FIGURA PAZZESCA

Partire da Milano per un Treffen sotto la neve è eccezionale, è essere già sul campo, non c'è trasferimento, sarà Generale Inverno per tutto il tempo. Mio fratello era partito nel pomeriggio da Empoli e ci aspettava da ore al benzinaio davanti a Dovera Moto di Monza. In quel periodo (e fino a pochi mesi fa) il vialone che da Cinisello Balsamo porta a Monza era flagellato dai lavori in corso per l'attuale tunnel e si formavano code lunghissime. Figuriamoci  se potevamo farci scappare la goduria di superare tutta la coda delle auto passando per i prati, surfando in neve fresca! Ci immaginavamo che la gente chiusa là dentro soffrisse di invidia nei nostri confronti, dato che stavamo sciando in fresca piuttosto che stare rinchiusi dentro quelle scatole, ma io centrai in pieno una rotaia (di tram? Di treno?) che era stata buttata di traverso sul prato, ma che la neve aveva coperto completamente e finii per terra, visto da tutti gli automobilisti in coda. E pensare che non cado quasi mai, ai Treffen invernali.

 

CONTRASTI

Finalmente arrivammo al distributore di Monza, dove in teoria avrei dovuto trovare mio fratello. E c'era, ma non da solo. Sotto la nevicata, due esseri umani completamente diversi sostavano sotto la pensilina, in attesa di altri esseri umani: mio fratello e una prostituta bellissima. Lui aspettava noi, lei aspettava i clienti. Lei era di una bellezza e di una finezza tale che veniva spontaneo domandarsi perché facesse quel mestiere (sarà stata una ragazza dell'Est costretta a farlo, temo). Una biondina dallo sguardo mansueto, vestita tutta di bianco: pellicciotto sciancrato, minigonna, calze e stivali. Pure l'ombrello era bianco. Magra, slanciata, gambe dritte e sottili, era una visione, una Venere del Botticelli che emergeva dalla neve e non dal mare. Sembrava la Regina delle Nevi, non una che si buttava via per burini brianzoli. Accanto a lei c'era un mostro, ovvero mio fratello in versione Treffen, quindi vestito con ottomila strati di roba tecnica da moto, ma frusta, ricoperta di sale, puzzolente. L'Omino Michelin in versione zarra. Per quanto lui cercasse di non dare fastidio alla Regina delle Nevi, stava comunque sotto la stessa pensilina ed è evidente che fungeva da deterrente per i clienti che, quando lo vedevano, fuggivano terrorizzati: la Bella e la Bestia.

 

L'ANTARTIDE ITALIANA

A Lecco smise di nevicare. Il resto del viaggio andò via liscio, senza problemi. Del resto, Montespluga è vicina a Milano, dista appena 160 km (ma è anche il paese italiano più distante dal mare: in linea d'aria, 235 km da Genova e 260 da Venezia). Per me, è la più bella località di montagna di tutte le Alpi. Non per la bellezza delle sue case, che sono piuttosto anonime. Nulla a che vedere con le scontatissime baite di legno e fiori del Tirolo e neanche con quelle caratteristiche della Valle Maggia (Svizzera), di Rochemolles (TO), di Carcoforo (VC), di Guarda (Svizzera) e di tante altri valli alpine fedeli alla tradizione antica. Quello che rende Montespluga unica è la sua posizione: si trova all'estremità di un lago artificiale, alto 1.900 m, in un paesaggio di alta montagna privo di boschi. La strada che ci arriva è aperta tutto l'anno, se non nevica troppo come quest'anno; e raramente il fondo è pulito. Abbiamo usato spesso questa strada come allenamento per imparare a guidare la moto sulla neve, in vista degli Elefanti. E quando arrivi alla diga del lago e vedi il paese là in fondo, sulla riva opposta, ti sembra di essere in Antartide. Cerchi, istintivamente, la nave di Shackleton bloccata tra i ghiacci. Era il posto perfetto per un Treffen! Peccato però che ci arrivammo all'una di notte, quando la strada era chiusa da una sbarra a quota 1.750 m. Poco male: eravamo già in una zona bellissima e, alla nostra destra, c'era lo spiazzo dove i clienti del rifugio "Mai tardi" posteggiavano le auto. Il rifugio si trova sulla cresta degli Andossi – una montagna a forma di balena che separa Madesimo da Montespluga – e i proprietari usano una motoslitta con rimorchio per portare i clienti su e giù.

Per arrivare fin qui, la strada era innevata a partire da Campodolcino. Aveva l'aspetto di una lastra di ghiaccio ricoperta da mezzo centimetro di zucchero a velo. Provammo a salire senza catene, perché per montarle di solito vanno via almeno 20 minuti: le maglie si incastrano sempre tra i tasselli. Provammo a salire senza... e salimmo. Passi per la mia leggera Suzukina, equipaggiata con le Dunlop Geomax, che sono gomme da enduro agonistico, quindi a mescola morbida; ma fummo stupiti nel vedere che mio fratello saliva senza problemi con la sua grossa Africa Twin dotata di Michelin T63, tassellate sì, ma a mescola dura, pessime su fango e neve. Però mio fratello sulla neve è sempre stato molto bravo. Riesce a dare trazione e poi, una volta che la moto è lanciata, la fa scorrere senza rallentare, neanche nei tornanti.

 

SONNO TROPPO PESANTE

Montammo le tende sotto un cielo coperto di nubi, con 8 gradi sotto lo zero e niente vento. Ma io ho un pregio che, in certe situazioni, è un difetto enorme: una volta che mi addormento, entro in un cosmo parallelo dal quale è difficile che esca. Ho il sonno pesantissimo. Questo mi permette di dormire ovunque, con qualsiasi rumore, posizione o luce e di recuperare la fatica anche in poche ore, ma mi espone anche a pericoli notevoli, dato che non mi sveglio. La volta più clamorosa e assurda avvenne nel 2002, quando andai, insieme a mio fratello e al fotografo Zep (molto noto nell'ambiente delle moto), in Congo, ai tempi della guerra civile, per fotografare un progetto che mirava a portare l'elettricità ad alcuni villaggi nella zona di Katako Kombe. Una notte andammo a dormire in un villaggio a sud di Lubefu e gli abitanti erano terrorizzati, perché ogni notte temevano attacchi dei Mai-Mai che, nei villaggi vicini, avevano ucciso gli abitanti a colpi di machete. Zep era terrorizzato e studiò una via di fuga (dormivamo in casette accanto alla foresta), mentre io e mio fratello eravamo fatalisti. Andammo a letto, dopo avere montato la zanzariera per evitare la malaria. Alle cinque di mattina venimmo svegliati da un suono di campane e pensammo: "Un attacco di Mai-Mai!". Zep si alzò subito in piedi, si avvolse una maglietta nera sulla testa per impedire che la luna piena gli facesse brillare la zucca pelata e uscì correndo come un pazzo nel buio della notte, finendo per schiantarsi a tutta velocità contro un muretto. Io mi svegliai, ma solo in parte. Totalmente rincoglionito, pensai: "Sono i Mai-Mai, ma tanto io ho la zanzariera, sono protetto" e mi riaddormentai come un sasso. In realtà, le campane suonavano per la messa, perché quelli ci andavano alle cinque della mattina. Il giorno dopo Zep, con due ematomi sulle cosce, mi guardò con disprezzo e disse: "Ti rendi conto che, se mai dovesse scoppiare una guerra in Italia, tu saresti il primo a morire?". Sì, me ne rendevo conto. Se quelle campane avessero suonato per i Mai-Mai, io mi sarei fatto prendere come un pollo, ancora assonnato.

In questo caso, sullo Spluga a un certo punto si mise a soffiare un vento pazzesco, ma io quasi non me ne accorsi. Non so come feci! Mio fratello e Ago Belfranz dormivano dentro una tenda della Bertoni, una “Nord Kapp”, che secondo me è tra le migliori sul mercato per quattro motivi: d'inverno non fa entrare spifferi, d'estate fa circolare l'aria, tiene il vento e costa relativamente poco (sui 130 euro, contro i 400 di molte concorrenti). Io, invece, ero dentro una tenda economica, della 8848. Come la Nord Kapp era una igloo a tre posti, ma d'estate ci facevi la sauna perché non era in grado di far circolare l'aria ed era per questo che la usavo come tenda invernale: la minima fu di meno 11 e dentro si stava bene, senza un solo spiffero. Aveva la paleria in fibra di vetro, meno resistente di quella in alluminio della Nord Kapp e aveva dei tessuti che non resistevano alle muffe. Il sistema di fissaggio della paleria era fatto male e in più io non l'avevo picchettata, contando sul mio peso per tenerla ferma. Ma il vento era davvero troppo forte. Io ho un vago ricordo di me che, in dormiveglia, vengo frustato dalle pareti della tenda ma, in sostanza, continuai a dormire. Quando mi svegliai, non capivo cosa fosse successo. Ero sepolto dentro la tenda, che era crollata e la porta era sotto di me. Il vento era riuscito a fare uscire i pali dal suo occhiello, per cui s'era afflosciata con me dentro; inoltre, aveva ruotato di 90 gradi, per cui ero stato spinto sopra la porta. Quando mi svegliai mi venne la claustrofobia!

Uscii e, mentre mi gustavo il paesaggio, arrivò un tipo che lavorava al rifugio Mai Tardi. Si fermò a guardarci e chiese: “Ma siete dei latitanti?”. Non era una battuta: era il 30 gennaio 2010 e, un mese e mezzo prima, il 15 dicembre 2009, era appena stato arrestato Mark Steven Weinberger, un chirurgo plastico americano di 46 anni che era fuggito dagli Usa a seguito di oltre 300 casi di malasanità a lui imputati a partire dal 2004. Aveva abbandonato la moglie in Grecia ed era diventato uccel di bosco. Quel 15 dicembre era stato ritrovato dentro una tenda, in Val Ferret, a 1.800 m di quota, in mezzo alla neve. Era equipaggiato di tutto punto contro il freddo e si era dato alla vita selvaggia. Il nostro latitante preferito!

 

NIENTE GEORGE CLOONEY

Il programma della giornata prevedeva di salire a Montespluga, per poi tornare in fondovalle e, attraverso i passi svizzeri del Maloja (1.815 m) e del Bernina (2.328 m, il più alto delle Alpi aperto d'inverno), scendere a Tirano. Qui avremmo incontrato Franz Ferro, che sarebbe arrivato, da Bolzano, dopo avere superato i valichi della Mendola, del Tonale e dell'Aprica. Ma a Franz, che non aveva mai fatto queste cose, passò la voglia e adottò la tattica del telefono spento, per cui a Tirano passammo oltre, maledicendolo. A Castasegna, appena passata la dogana svizzera, andammo a fare benzina e arrivò un tipo gigantesco su un pick up, un tipo muscoloso, alto sul metro e novanta e con la coda di cavallo. Scese dal veicolo e mi disse: "Ti conosco, lavori con Paola Verani a Motociclismo!". Si trattava di Nicola de Marinis che, durante gli anni Duemila, aveva scritto diversi articoli sui suoi viaggi africani in sella a una bellissima Honda Transalp 600 prima serie, preparata con serbatoi posteriori,  sospensioni a maggiore escursione e megascritta "Hoggar" sulle fiancate. E adesso? Adesso era incazzato: "Faccio il paparazzo, arrivo da St. Moritz dove la Canalis sta girando un Vacanze di Natale con Boldi. È stata una giornata persa, perché io puntavo sulla presenza di George Clooney, sono quelle le foto che pagano bene". La Canalis stava con Clooney da appena sei mesi; si sono lasciati nel giugno 2011.

 

LIVIGNO, UN POSTO PARTICOLARE

Passammo il Bernina con 13 gradi sotto lo zero, superammo Tirano paccati da Franz Ferro e, dopo il tramonto, affrontammo i passi Foscagno ed Eira, per arrivare a Livigno. E si mise a fare un freddo bastardo. Sull'Eira c'erano 18 gradi sotto lo zero, quando mi levai i guanti per fotografare Livigno dall'alto. Pochi minuti, durante i quali le mani si misero a urlare dal dolore. Rimisi i guanti e ripartii, ma non riuscivo a sentire il manubrio tra le mani, sentivo solo un gran dolore.

Livigno dall'alto, di notte, tradisce le sue origini: era un villaggio di alta montagna con le case messe in fila indiana lungo la strada, distanti una dall'altra, per non trasmettersi gli incendi a vicenda. Oggi è una località sciistica tra le più rinomate delle Alpi, perché qui la neve dura fino a maggio e perché, quando nevica tanto, può rimanere isolata per giorni. Come può questo rendere una località rinomata? Può, può. Tecnicamente, Livigno si trova in una valle svizzera, con sbocco sull'Engadina, anche se si trova in territorio italiano. Ma la valle è estremamente impervia, per cui la via di uscita da Livigno è stata rappresentata, fino a pochi anni fa, dai passi Eira-Foscagno verso Bormio e dalla Forcola verso Tirano. Sono passi alti oltre 2.200 m, quindi soggetti a nevicate feroci, inoltre sulla Forcola cadono ogni anno grosse valanghe: si può capire come Livigno abbia sofferto lunghi periodi d’isolamento. Questo sembrerebbe un grosso difetto, ma è anche un pregio perché, per via di questa posizione isolata, le è stato concesso lo status "duty free", dove parecchie merci sono esenti da tasse. La benzina costa un euro al litro e a prezzi bassissimi si trovano anche zucchero, sigarette, alcoolici, fotocamere, televisori, cellulari, profumi e tante altre cose. Mettete insieme la qualità delle sue piste da sci e lo shopping sfrenato e capirete perché del vecchio villaggio con le case staccate le une dalle altre non è rimasto nulla: oggi, Livigno è piena di alberghi, negozi e turisti. Ma di notte, dall'alto, offre ancora la visione stretta e allungata delle origini. L’isolamento è finito quando, nel 1968, è stato costruito il tunnel Munt La Schera, presso il Ponte del Gallo, lungo 3,4 km e a un’unica corsia. Venne realizzato per portare i materiali di costruzione della diga del lago di Livigno, o Lago del Gallo e poi reso agibile al traffico.

Tempo fa, le Iene girarono qui un servizio polemico, per protestare contro questa cosa del duty free: secondo loro, oggi Livigno non soffre più dell'isolamento e, quindi, le si dovrebbe togliere questo privilegio. Però anni fa è successa una cosa terribile, che va contro la loro tesi: un bambino di pochi mesi si ammalò, era un’influenza pesante che non si poteva curare a Livigno, ma a Sondalo; solo che nevicava, il  Foscagno era chiuso e gli elicotteri non potevano volare. Il bambino morì. Non ho mai capito perché non provarono a fuggire dal tunnel Munt La Schera e andare in Svizzera o Austria.

 

DARE NELL’OCCHIO

A Livigno arrivammo alle 19 ma, prima di andare a montare le tende, aspettammo l’arrivo di Baypiss, che aveva finito di lavorare e stava arrivando, da Milano, di gran carriera. Allora andammo nel primo locale che trovammo, ma sembrava di essere in Corso Como a Milano: ultrafighetto, con luci soffuse, musica lounge e piccoli puf su cui sedersi. Belle fanciulle in ogni dove. Noi eravamo come dei bantù alla mensa della Regina Elisabetta e non c’era neanche posto per accatastare i 57 strati di vestiario che indossava ciascuno di noi, puzzolente e ben marinato nel sale. Cambiammo posto e finimmo all’Atomik, che a Milano sarebbe un locale alternativo in Viale Tunisia, mentre a Livigno è un grandioso bar-pasticceria con un sacco di tavoloni e di spazio per gente come noi, intenzionata a svernare al caldo per tre ore. Nel frattempo, con le nostre dragate avanti e indietro avevamo finito per farci notare da diverse persone in paese, cosa che volevamo evitare. Se vuoi fare campeggio libero in un posto, è bene che la gente del posto non lo sappia. Qua finirono per saperlo tutti, del resto eravamo verso i venti gradi sotto lo zero e vedere qualcuno in moto era davvero strano. Entrò una ragazza, ci vide e disse: “Ma siete voi? Ho visto dei motociclisti passare per Trepalle e non credevo ai miei occhi, non pensavo che si potesse andare in moto con questo freddo”. Entrò un tipo e disse che ci aveva visto passare un’oretta prima. “Io il mio KTM lo metto via per tutto l’inverno, ma voi mi fare tornare la voglia”. Alla domanda: “Ma dove dormite, qui in paese?” io risposi sul vago, invece Belfranz lo disse: “Sì, metteremo le tende da qualche parte”. Si misero a ridere tutti: “Ahahahahah, in tenda con questo freddo, morirete tutti, ahahahahah”. Alle 21 arrivò Baypiss. Disse che sul Foscagno c’era passato con -20°. Si rilassò un’oretta dentro l’Atomik, che per fortuna chiudeva tardi e, quindi, andammo a cercare un buco per mettere la tenda. Non era facile: ovunque tentassimo di allontanarci dall’abitato trovavamo strade chiuse per pericolo valanghe.

 

I BARBONI DI SEATTLE

Alla fine, ci imbucammo all’imbocco della Val Viera, in riva al fiume, accanto al lago di Livigno e all’inceneritore dei rifiuti. Potrebbe apparire poco romantico, quest’ultimo, invece in quella notte polare, col suo aspetto moderno e il fumo che saliva nel cielo nero, aveva un suo perché. Ci mettemmo a grigliare carne e io definii il nostro gruppo, in quel contesto, “i Barboni di Seattle”, che bivaccavano ai piedi del modernissimo inceneritore.

Alle 23, la tragedia: il termometro, che era arrivato a -22 °C, collassò. Faceva troppo freddo, per lui. Si spense per sempre. Io ero disperato: ci tenevo, a sapere con quanta minima avremmo dormito quella notte. Ma ero l’unico a tenerci, quindi l’unico con un termometro. “Ma dai, chette frega” mi dicevano gli altri. Oh, che devo dire, ci tenevo. E poi era anche utile per sapere regolarsi in altre situazioni. Ad esempio, io al Treffen avevo dormito con -21° ed ero morto di freddo, perché avevo una tenda estiva che faceva entrare l’aria alla grande. Mentre qua a Livigno dormii benissimo, a parità di sacco a pelo, perché venni ospitato nella tenda Bertoni “Mistral” di Baypiss, molto simile alla Nord Kapp e molto calda. Ma quanto fece quella notte? Se fa meno 22 alle 23, quanto farà alle 7 di mattina, che in inverno è l’ora più fredda? -25°? -27°?

 

LA RESURREZIONE DI FRANZ

Il giorno dopo, Franz Ferro riaccese il telefono. Disse che era stato malato tutto il giorno precedente, ma che era guarito e che ci avrebbe raggiunto sul Passo Resia. Ovviamente, sul fatto che fosse malato non la bevve nessuno, ma sempre meglio vederlo sul Passo Resia che non vederlo per niente, no? Mentre ci gustavamo il panorama, arrivarono due guardie forestali in auto. Scesero e vennero da noi. Il campeggio libero è notoriamente vietato in tutta Italia, ma lo è per scoraggiare il nomadismo, pertanto c’è sempre una certa tolleranza verso i viaggiatori che piantano la tendina per la notte. I due ci chiesero quanto avevamo avuto di minima durante la notte – io scoppiai in lacrime – e poi ci prestarono i loro binocoli per farci vedere dei camosci che stavano andando a spasso su dirupi ad altezze vertiginose. Quindi, se ne andarono.

Noi abbandonammo Livigno ed entrammo in Engadina dal tunnel, poi passammo in Austria e salimmo sul Passo Resia, che è famoso perché è stato creato artificialmente sommergendo un paese. Oggi è un posto meraviglioso, con il campanile della chiesa che esce dall’acqua (nel nostro caso dal ghiaccio) e i kite-sciatori che volteggiano tutto intorno, ma il governo di Mussolini per fare quel lago cacciò gli abitanti del paesino e non li risarcì: che brutta storia. “Dovete sacrificarvi per il Popolo italiano”, fu detto loro.

Sul Resia splendeva il sole ma c’erano 9 gradi sotto lo zero, che divennero -15° sul Palade e sul Tonale. Alla base del Tonale, maledizione, mi scappò la cacca. Pensai: resisto, dai. La faccio dopo Brescia, in autogrill. Ma era uno stimolo invadente e cattivo. Mentre salivo sul Tonale, con la temperatura che scendeva, pensavo: “Devo resistere, non posso farla con questo freddo. Passo il Tonale e mi cerco un bar a Vezza d’Oglio od Edolo”. La cacca è tonta, non ragiona, ma comanda lei. Quando ho capito che stavo facendomela addosso, ero esattamente sul Tonale. Mi sono precipitato in un parcheggio. Erano le 20, tutti gli sciatori se n’erano andati. Era buio. L’ho fatta lì ed è stato terribile, perché stare a meno quindici col culo all’aria e senza guanti è atroce. Ed è ciò che ricordo di quel ritorno. Quel giorno ci facemmo 500 km tutti sotto lo zero, Milano compresa. E senza abbigliamento elettrico. Non soffrii perché ero coperto bene, ma lo rimpiansi. Dopo che provi l'Elettrico, nulla sarà più come prima.

 

2011, SIMBRUINI E SIBILLINI

Tornati a casa, tracciammo un bilancio. Ci eravamo divertiti e non avevano rimpianto l’Elefanten. Per il 2011, così, pensammo al Centro Italia, ma a fine febbraio, perché a gennaio non so cosa avessi da fare ma non potevo fintare. Giovedì sera avrei dormito a Empoli, ospite di mio fratello. Venerdì sera Campo Imperatore. Sabato sera Pian Grande di Castelluccio di Norcia. Bello, no? Ma si rifece vivo Emanuele Pasculli Avetta, il romano che nel 2009, dentro la Fossa, mi aveva chiesto cosa pensassi di un Elefanten in Italia. Non c’eravamo lasciati recapiti, ma lui mi aveva beccato su Facebook. E mi scrisse ciò: “Coi miei amici sto organizzando l’Orsakkiottentreffen a Campobuffone, ci vieni?”. Campobuffone? Uno scherzo? Si trattava di un altopiano carsico parallelo a quel Camposecco dove avevano girato “Lo chiamavano Trinità”. Solo che lui aveva fissato la data una settimana prima del Finten e io non potevo anticipare. Ma i suoi amici lo semi-paccarono, nel senso che non intendevano dormire in tenda: l’Orsakkiotten si ridusse a una gita in giornata e così lui, deluso, decise di replicare la settimana successiva, aggregandosi al Finten che, in suo onore, avrebbe avuto la prima notte a Campobuffone.

Questa volta, da Milano, partii da solo, perché Baypiss lavorava in Sudafrica. Per una storia complicata, che non sto a spiegare qui, fui costretto a partire con una BMW G 650 GS, più pesante della mia Suzuki 400, tassellata a mescola dura (Continental TKC80, mentre io preferivo la mescola morbida) e privata dell’antisvergolo sulla forcella anteriore, per poter montare le catene. Era una moto molto comoda, bassa di baricentro, parca nei consumi (26 km/litro!), facilmente bagagliabile e con una comoda presa per il riscaldamento elettrico. Feci tutta la Milano-Empoli sotto la pioggia, ma il giorno dopo il tempo era decente. A fine febbraio, la Toscana era decisamente poco invernale, con temperature sui 10 gradi e zero neve. Così ci fu una novità rispetto all’Elefanten: 200 km di fuoristrada da Empoli a Sarteano, come in un giro estivo.

 

LA TRAGEDIA DEI RACCONTI

Una caratteristica di noi esseri umani è che ci divertono i racconti con le sfighe. Se va tutto bene, ci annoiamo. Ci piace leggere dei guai e di come se ne viene (o non se ne viene) fuori. Perché siamo fatti così? Non lo so. Mi sono appena letto il libro "Questa non è una guida" di Totò Femia le Motò, che racconta del suo viaggio a Samarcanda e m'è piaciuto molto, ma ho raggiunto il massimo del piacere quando s'è piantato nel fango fino alle orecchie in mezzo al deserto e n'è venuto fuori grazie ad un tipo odioso che con le mani lo aiutava e con la lingua lo umiliava. Ebbene, nei nostri 200 km di fuoristrada (o meglio: un mix di asfalto e sterrati) attraverso la Toscana non successe nulla di sfigato che valesse la pena essere raccontato. Vedemmo bei paesaggi, ci divertimmo a guidare su un tratturo fangoso in cima al Monte San Michele,  rimasi un po' deluso dall'Eroica, che non aveva i paesaggi da urlo di altre parti della Toscana, Val d'Orcia in primis. E la Val d'Orcia fu il gran finale di quei 200 km. Ma adesso, a distanza di tre anni, non mi vengono in mente aneddoti gustosi da raccontare. Fummo relativamente veloci, ma all'ora di cena eravamo ancora a Sarteano a comprare la carne da grigliare. Oltre a mio fratello e me, c’era anche Ago Belfranz. Pasculli Avetta ci aspettava ad Arsoli, in Lazio, all’inizio della salita per Campobuffone.

 

MAI PIÙ CON SCONOSCIUTI

Io stavo disubbidendo alla regola che mi ero dato dopo le litigate del 2007 e 2009: “mai più con sconosciuti”. Volevo fare queste cose solo con gente convinta, abituata, vogliosa di freddo, buio, scarsa aderenza. Ed eccomi qua con questo Emanuele, di cui non sapevo nulla e che iniziò subito a guardarci strani perché, dopo essere arrivati alle 22, passammo un’oretta fermi nel bosco per capire come mai l’Africa Twin di mio fratello non camminasse più. Perdeva colpi e non prendeva giri, poi si spegneva. Allora lui decise di staccare la fiancatina sinistra e di legarla dietro; il motore riprese a cantare, nessuno capì perché e così arrivammo a Piana di Campaegli, un altro altopiano, attiguo al Campobuffone. Campaegli è abitata – Ennio Morricone ci va in vacanza da anni – mentre Campobuffone non lo è. Per arrivarci, prendemmo una sterrata innevata, ricoperta da 30 cm di neve solcata dai 4x4. Pasculli, che guidava una BMW R 1200 GS con gomme slick, catenò la moto, mentre noi tre riuscimmo a farcela con la sola forza dei nostri tasselli. La traversata fu una magia, con la luna piena. A mezzanotte eravamo in mezzo a questo Buffone e ci si vedeva benissimo grazie alla luna che si rifletteva sulla neve. Era un bellissimo altopiano, completamente disabitato, con doline carsiche qua e là. Un posto da Treffen allucinante!

All’una, mentre grigliavamo la carne, udimmo il celestiale pum pum di una Yamaha XT500: era quella di Danilka Livieri, un pesarese fuori di testa conosciuto alla Hardalpitour di pochi mesi prima. Lui quella volta si era svegliato alle tre di mattina, era partito da Pesaro alle quattro, era arrivato a Ormea alle dodici, era partito per la Hardalpitour alle quattordici, era arrivato al traguardo finale dopo oltre 500 km a mezzogiorno dell'indomani dopodiché, alle 16, al momento di ripartire per Pesaro, senza dormire da 37 ore, mi disse: "Sono un lettore di FUORIstrada, i miei articoli preferiti sono quelli che scrivi sul Po, già che stiamo tornando me ne fai fare un pezzo?". Pensai che fosse pazzo, ma ero in estasi: che tipo fantastico era questo? Pochi mesi dopo, mi scrisse una e-mail: "Ti andrebbe di fare un giro in moto con la tenda sulla neve, questo inverno?". Come non invitarlo al Fintentreffen?

Lui è uno che su asfalto usa l'XT500 come se fosse una maxienduro bicilindrica e in fuoristrada come se fosse una enduro racing.

Partì la sera del venerdì da Rimini, dove lavorava. Non usava Gps e le cartine non erano molto precise con Campobuffone, per cui lui studiò il percorso su Google Earth e si fece descrivere molto bene la strada per arrivare nel cuore di questo altopiano. E fu bellissimo sentire il pum pum del suo motore anticipare il fascio di luce del suo modesto faro a 6 volt...

 

Per continuare a leggere il racconto cliccate qui.

Fintentreffen Parte 2

CIACCIA SHITUATION

Di notte fece meno quattro, quindi uscì il sole e sembrava estate. Con una strada innevata superammo il passo che ci separava da Monte Livata, località sciistica diventata famosa a Capodanno 2014, quando una mamma s'è persa nel bosco coi figli. A fine febbraio 2011, questa località era in sbaraccamento totale. La neve era marcia, gli impianti e gli alberghi erano chiusi, c'erano già le prime moto da strada provenienti da Roma per inaugurare la bella stagione. Il sole picchiava, veniva voglia di andare al mare. Altro che raduno invernale... Intanto, sull'altra costa d'Italia, a Fermo, Alessio Corradini stava comprando tonnellate di carne per la grande grigliata che avremmo fatto nel Pian Grande di Castelluccio di Norcia la sera stessa. Ma noi non ci arrivammo mai.

I miei denigratori definiscono “Ciaccia Shituation” quella fase di una gita in cui io prometto che, per fare un dato percorso, occorrerà un certo tempo, assicuro a tutti un arrivo entro cena e poi finiamo per piantarci, o perderci, senza vedere vie di uscita per un tempo infinito. Non è un mio vanto. Il soprannome me lo diedero negli anni 90, quando programmavo gite in bicicletta in zone impervie e sconosciute, che finivano per inghiotterci per sempre. Si puntava a uscire dal bosco per le 17 e invece lo facevamo alle 22. Io venivo insultato. Col tempo capii che dovevo essere più affidabile e programmare gite più corte e con tempi stimati più lunghi, ma ogni tanto toppo in pieno, perché il fuoristrada non è mai prevedibile. Non ci piacerebbe, altrimenti! La gente si divide tra coloro che si divertono, nel ritrovarsi in Ciaccia Shituation e chi, invece, ne è inorridito, mi insulta e non vuole vedermi mai più.

Ma cosa successe questa volta? Alle 15 arrivammo in cima a un valico molto interessante, la Serra di Sant'Antonio, 1.600 m, sopra al quale si trova una delle località sciistiche più alte del Centro Italia, Campo Staffi, alta ben 1.800 m sul mare, quanto Livigno. Il passo segna il confine tra Lazio e Abruzzo e la cosa ebbe una sua importanza, perché il versante abruzzese non era stato spalato e la neve era alta mezzo metro. Porca miseria! Adesso ci toccava tornare di sotto, andare a Subiaco, aggirare i Simbruini passando per Arsoli e Carsoli... Povero Corradini, chissà per quanto tempo ci avrebbe aspettato in mezzo al Pian Grande... Allora qualcuno di noi, vedendo che un 4x4 aveva lasciato dei solchi, propose di catenare le moto e di tentare la via dei solchi. Ci tengo a dire che fu “qualcuno di noi” perché io, questa volta, ero per la via della saggezza. Era chiaramente una Ciaccia Shituation, ma non fu proposta da me. Tuttavia, quando quel qualcuno lo propose, io applaudii con entusiasmo. Alle 16 ci gettammo lì dentro e fu la nostra fregatura. I primi 200 m erano in discesa e la neve era fresca e farinosa, per cui le moto ci galleggiavano sopra ed era una goduria pazzesca. Ma poi la strada diventò in piano, girò intorno alla montagna e passò su un versante dove la neve era crostosa sopra e molle sotto. Le moto sprofondavano e si piantavano. Iniziammo a fare una fatica pazzesca, ma tornare indietro sarebbe stato ancora peggio. Più avanzavamo e più ci illudevamo che la discesa sarebbe ripresa e che la neve sarebbe diminuita, ma non succedeva. Allora ci veniva il panico: e se i solchi del 4x4 fossero destinati a finire da qualche parte, anziché percorrere tutta la strada? Alle 18, cioè dopo due ore di spinte, il sole era tramontato e avevamo percorso appena 1.700 metri. Ma, per i successivi 300 metri, occorse un'altra ora. Più avanzavamo e più le moto si piantavano. La peggiore era la mia BMW, che aveva così poca luce a terra da incastrarsi di continuo. Era messa persino peggio della R 1200 GS di Pasculli, i cui cilindri erano posti più in alto di quello che si può supporre. L'Africa Twin di mio fratello faceva le bizze ed erogava la potenza di un cinquantino, finché lui non scoprì che lo scarico si era crepato e vomitava gas di scarico direttamente dentro la cassa filtro. Pur di avanzare, mio fratello tolse il filtro. La cosa pazzesca è che lui usa tutti i giorni la moto per andare al lavoro, all'epoca aveva già passato i 200.000 km e attualmente non si sa quanti km abbia, dato che lui è uso rompere gli strumenti e non ripararli; ma il motore è sempre lo stesso, quel poveretto che, sui Simbruini, ha ingerito i suoi stessi gas di scarico.

Nel frattempo, Alessio Corradini si trovava al buio in mezzo al Pian Grande e continuava a telefonarci per sapere quando saremmo arrivati. Non capiva la situazione: ogni volta io rispondevo col fiatone, spiegando che eravamo piantati nella neve alta a 170 km da lui. "Ho capito, ma quando arrivate?". "NON-LO-SO! Siamo piantati qua dentro come dei coglioni". "Sì, ma io sono qua da solo, quindi quando arrivate?". "Non lo soooooo!". "Ho comprato quintali di carne per tutti voi! Quando arrivate?". Alle 19 glielo dissi: "Siamo sfiniti, ci fermiamo qui a dormire". La prese male. Non ci credeva.

Noi ci fermammo a dormire perché avevamo esaurito le forze fisiche e psicologiche. Alle 18 avevamo mandato avanti Danilka e Ago Belfranz, perché loro avevano le monocilindriche leggere, strette e alte da terra. Volevamo che arrivassero alla fine della tratta innevata e che ci telefonassero: "Coraggio, ancora 500 metri ed è finita". Invece, anche loro impazzirono per avanzare 300 metri. Arrivarono ad una curva oltre la quale il vento era molto forte, persero ogni speranza e tornarono indietro a piedi a proporre di fermarci, riposarci, dormire e ripartire il giorno dopo, sperando che di notte gelasse e si indurisse. Ancora non lo sapevamo, ma avevamo percorso appena 2 di 9 km conciati tutti in quel modo. Questa cosa avrebbe potuto succedere anche durante un giro in giornata, senza bagagli e sarebbe stata una tragedia. Avremmo dovuto passare la notte senza essere equipaggiati. Invece, questa volta avevamo le tende, i sacchi a pelo, l'acqua, la pasta, il sugo all'amatriciana, la legna per il fuoco. Ci accampammo in mezzo alla strada e passammo una bella serata, anche se non facemmo altro che discutere sul da farsi, tipo:

 

1.     Sperare che ghiacciasse tutto, si indurisse e permettesse alle moto di avanzare affondando di meno;

2.     Aspettare la primavera;

3.     Scendere a piedi e convincere qualcuno a portarci via le moto con un trattore;

4.     Telefonare all'Ansa che ci mandasse uno spazzaneve;

5.     Andarcene a piedi, abbandonare le moto al loro destino e portarci via le targhe, per non farci beccare.

 

Per fortuna che la risposta giusta si rivelò la 1. Di notte fece -8°, la neve diventò dura, ci alzammo alle 6, smontammo tutto e ripartimmo; quei 7 km li facemmo in tre ore. La cosa eccezionale, secondo me, fu che tra tutti e cinque nessuno diede in escandescenze. Nessuno accusò qualcuno di avere avuto questa idea cretina. Non ci furono rinfacciamenti. Non ci furono momenti di sconforto o di nervosismo. Avevamo avuto una pessima idea, ma avevamo insistito e ci eravamo fatti 9 km in 6 ore, da veri dementi. Ma avevamo vissuto fortissimi momenti di amicizia, con due new entry nel mondo dei Coglioni d'Inverno. Con altre persone, un errore simile avrebbe portato allo scoppio della Quarta Guerra Mondiale (perché dopo il crollo delle Torri Gemelle mi viene da considerare il conflitto Occidente-Al Qaeda come una sorta di Terza Guerra Mondiale).

Arrivati sull'asfalto, lo baciammo. Ma ci dividemmo: mio fratello, Ago Belfranz e Pasculli Avetta tornarono subito a casa, mentre io e Danilka partivamo per il Pian Grande, telefonando pure a Corradini. Dopo il nostro pacco, lui era tornato a casa sua, a Fermo ma non era così incazzato da non accettare di fare di nuovo un salto. Non ci passammo la notte, arrivammo lassù al tramonto, facemmo un pic nic con focaccia, formaggi e salumi e poi ripartimmo per tornare a casa. La strada era, più o meno, la stessa: Corradini doveva andare a Fermo, Danilka a San Giorgio di Pesaro ed io a Cisliano (MI), dove ero appena andato a vivere. Ma Danilka venne a sapere che, sul valico della Scheggia, stava nevicando e quindi ci salutò per passare di lì. Io pensai: "Questo è peggio di me. Questo è malato...". A me venne un colpo della strega micidiale e non fui più in grado di guidare, per cui Alessio mi ospitò a casa sua, dove mi ammalai. La mattina dopo ripartii, col mal di schiena e la febbre e mi feci tutto il viaggio fino a Milano sotto la pioggia. 500 km tra i più brutti della mia vita, perché, avendo la febbre, soffrivo il freddo pur avendo l'abbigliamento elettrico. Non feci altro che sognare una doccia calda ma, una volta arrivato a casa, scoprii che eravamo senz'acqua a causa di un tubo rotto.

Non seppi che giudizio dare a questo Finten. Ciò che spiccava, sopra ogni cosa, era il sentimento di amicizia che ci aveva legato su quella strada maledetta.

 

2012, DOLOMITI E MAGREDI

Nel 2012 feci un errore. Chiesi agli amici se volevano fare il Finten a gennaio o febbraio e i furbetti risposero "febbraio", suppongo perché faceva più caldo. Inoltre, in diversi si dichiararono interessati, purché si girasse vicino a casa loro: erano persone che mai e poi mai avrebbero fatto l'Elefanten, tanto che definimmo il termine "Local" per distinguerli dai "Treffer". Insomma, il Finten stava diventando la versione soft dell'Elefanten, un Faraoni più che una Dakar. Ma gennaio fu mite, mentre a febbraio arrivò un'ondata di freddo polare, con minime di -15° / -20° in Pianura Padana e una nevicata spaventosa nelle Marche, con metri di neve persino sulla costa adriatica. Passammo giornate a discutere su dove andare: traversata nord-sud delle Marche (quando ci sarebbe ricapitata tutta quella neve?), Dolomiti + Magredi del Friuli, Po + Alpi Francesi? Per ciascuno di questi tre itinerari c'era almeno un "local" che ci tirava per la giacchetta per fare il giro dalle sue parti, rifiutandosi però di partecipare agli altri percorsi. Nel frattempo, però, l’ondata di freddo finì.

Alla fine optammo per le Dolomiti, per un motivo semplice ma essenziale: erano quelle che promettevano il maggiore divertimento di guida. Un enorme divertimento è però anche prendere in mano una mappa e tracciare un percorso. In questo caso, come degno accampamento d'inizio pensammo alla Piana di Marcesina che, pur essendo alta "solo" 1.300 m,  ha delle caratteristiche da dolina, ovvero accumula aria fredda sul fondo. Ogni anno il termometro vi scende a livelli scandinavi, tanto che viene chiamata "la Finlandia d'Italia". Il record è stato raggiunto nel marzo del 2005, con 34 gradi sotto lo zero. Lo scrittore Mario Rigoni Stern  parlò di questo posto in toni poetici, riferendosi a due amanti su una slitta in una notte di luna piena. La Piana non ha paesi, ma baite isolate e il rifugio Barricata gestito da Urbano Caregnato, che ha piazzato una stazione metereologica Vantage Vue della Davis, per registrare le temperature durante tutto l'inverno. Il rifugio d'inverno è chiuso, ma la stazione è sempre attiva e Urbano va spesso a controllarla. Lo hanno anche intervistato in televisione, qualche anno fa.

Una volta beccato il luogo ideale per l'accampamento, si passa a una bella strada per arrivarci ed ecco che l'ideale ci sembrò partire da Trento, accedere all'altopiano di Lavarone facendo la Kaiserjagerstrasse (una tortuosissima e panoramica strada suggeritami da Franz Ferro) e passare all'altopiano di Asiago per la famosa strada del Passo di Vezzena, che attraversa quello che un tempo era il confine tra Italia ed Austria ai tempi della Grande Guerra e che oggi divide il Trentino dal Veneto. La Kaiserjager me la feci al tramonto e arrivai al più panoramico dei suoi tornanti, dove avevo appuntamento con Andrea Torresan, un appassionato di Aprilia Tuareg. Mi godetti tutta la sua salita, ammirando il panorama (il sole che si specchiava nel lago di Caldonazzo, le luci dei paesi che si accendevano) e ascoltando il pum pum del suo monocilindrico che saliva passando da un tornante all'altro.

Ad Asiago incontrai il "solito" Ago Belfranz, ormai abbonato al Finten e un suo amico, Tommaso Grazzini. Anche in questa occasione, dunque, c'erano due nuovi partecipanti e, quindi, avevo il timore che non ci capissimo e che finisse in lite, o in scisma. Ma le condizioni sempre favorevoli in cui si svolse questo Finten scongiurarono il pericolo.

 

PAPPEMOLLI!

Arrivare a Marcesina fu fantastico: c'erano 7 km di strada innevata. Le mie Dunlop Geomax salivano senza problemi, mentre le Michelin T63 della Honda XR400R di Ago Belfranz e dell'Aprilia Tuareg 600 di Andrea Torresan non avevano alcun grip e dovettero venire catenate. Poi c'era Tommaso, che guidava una BMW G 650 Xcountry dotata di gomme  Heidenau K60 Snow, specifiche da neve, con la mescola a base di silice. Ma che delusione, che si rivelarono! Erano come le T63, non avevano alcun grip, per lo meno su quel tipo di fondo (crosta di ghiaccio ricoperta da uno strato di 5 cm di neve fresca).

Marcesina faceva paura. Era veramente disabitata, ma in fondo alla conca, tra gli alberi, c'era un'inquietante luce rossa. Pensammo subito ad alieni assassini provenienti da Plutone, invece era la Davis Vantage Vue di Urbano Caregnato.  Dopo la consueta grigliata, con chiacchiere fino alle tre della mattina, andammo a nanna, ma il termometro scese ad appena sette gradi sotto lo zero. Quando ci svegliammo, arrivò una Land Rover Discovery e dal suo interno scese Urbano Caregnato in persona, che ci diede delle pappemolli per avere dormito con -7° al posto di -34°. "Ma noi speravamo nei -40°", tentammo di convincerlo della nostra buona fede, senza riuscirci. "E poi quest'auto – disse, indicando la sua Discovery – è partita quasi  subito, dopo la notte a meno trentaquattro!". Io dormii dentro una tenda II Seconds di Decathlon, quella che si monta semplicemernte lanciandola e che, da chiusa, misura 55 cm nella versione più piccola. Fu una scoperta: costava appena 29 euro, era caldissima (anche d'estate, purtroppo), aveva tanto spazio per una persona e i bagagli invernali e si montava veramente in un attimo, con telo interno e telo esterno già fissati tra loro. Per chiuderla, se si imparano le tre azioni si è velocissimi. Purtroppo, adesso Decathlon ne ha fatto uscire la nuova versione, che non solo costa 10 euro in più, ma è anche un po' più grande e, da chiusa, è un disco da 61 cm. Sul mio DR-Z, mettendola chiusa sulla sella i suoi 55 cm erano giusti giusti tra chiappe e faro posteriore. 6 cm in più mi sembrano davvero troppi.

 

MAMMA PORDOI

Il resto della giornata fu caldo e soleggiato. Superammo i passi Rolle, Valles, San Pellegrino senza patire alcun freddo e guidando sempre su strade asciutte. No, non sembrava un Elefante e c'era da stupirsi che non ci fossero altre moto in giro. E infatti eccone una, proveniente dal senso contrario, a Canazei: un tedesco su un'Africa Twin vecchissima, tutta sporca di sale e stracarica di bagagli. Lo salutammo, poi capimmo che non era un tedesco, ma mio fratello, partito in mattinata da Empoli e che ci stava cercando tra Canazei e Moena di Fassa. Un altro puntello lo avevamo con Baypiss, che però sarebbe partito da Milano dopo il lavoro. Allora salimmo in cima al Passo Pordoi e ci piazzammo dentro un bar per aspettarlo, mentre fuori si scatenava un vento così forte da far cadere una delle moto. La donna che gestiva il bar ci adottò. Disse che avrebbe dovuto chiudere, ma tanto aveva poco da fare, era sola e quindi accettò di restare aperta fino all'arrivo di Baypiss; poi ci disse che non aveva mai visto gente in moto così presto sul passo (in realtà, io ero già passato di qui quattro volte, in altrettanti gennaio degli anni passati, tre delle quali di ritorno dall'Elefanten); e, quando capì che intendevamo dormire in tenda con quel vento, si dimostrò preoccupatissima come se fosse stata nostra madre e ci diede il numero di telefono del ragazzo che ripassava le piste col gatto delle nevi, "Così se siete nei guai lo chiamate e lui arriva di corsa".

 

VALPAROLA, IL POSTO PERFETTO

Come sede della seconda notte la scelta era caduta sul Passo di Valparola, alto 2.200 m, perché non è aguzzo come il Sella, né abitato come il Pordoi: ha un pianoro lungo oltre 1 km, disabitato, dunque si presta al campeggio libero. C'era molto vento, ma ci sistemammo, facemmo la solita grigliata e tendemmo l'udito per sentire il pum pum della moto di Danilka, ma ci stufammo e, alle due del mattino, andammo a nanna. Danilka arrivò alle tre della mattina. Sorpresa: non aveva la sua amata Yamaha XT500, ma un’altrettanto fascinosa XT600Z Ténéré prima serie. La sorpresa derivava dal fatto che lui la XT500 l’aveva comprata da Toni Valeruz, il mitico sciatore di Canazei che è stato tra i profeti dello sci estremo (ha iniziato negli anni 70, è sceso da posti assurdi come il Cervino e il Makalu e un anno fa, a 62 anni, è sceso dal Gran Vernel) e, quindi, ci teneva a riportarla sulle Dolomiti.

 

LA DAKAR ITALIANA

La mattina dopo ci rendemmo conto che il Valparola era ancora più perfetto di quello che avevamo pensato sulla carta. La luce del giorno ci mostrò che eravamo in cima a una terrazza panoramica a vista Marmolada, Averau, Nuvolau. Uno spettacolo. Si trattava del posto più alto dove avessi mai piantato la tenda durante un treffen invernale, ma la temperatura minima ci sbeffeggiava: due gradi sotto lo zero. Mi venne in mente quella volta in cui andai a fare Capodanno a Helsinki, con una temperatura minima di -2 °C, mentre a Milano, negli stessi giorni, c’erano -11°.

Andammo a pranzare sul Passo Giau, uno dei più belli delle Dolomiti e poi, attraverso la Forcella Staulanza, andammo a Longarone, tristemente famosa per essere stata distrutta dalla frana del Monte Toc che, nel 1963, fece sbordare l’acqua di un lago artificiale oltre la diga, provocando circa 2.000 morti. Da quel lago inizia la strada che costeggia il fiume Cellina, stupenda, poco frequentata e selvaggia, quasi tutta dentro canyon. L’acqua è blu turchese. Dopo il lago di Barcis, si sfocia nelle pianure friulane che, per un appassionato di rally africani in moto, sono luoghi di culto. Qui, infatti, i fiumi hanno l’abitudine di interrarsi, lasciando sopra di loro un mare di ghiaia: sono i “magredi”, dei veri e propri deserti dove, in passato, venivano ad allenarsi i team Cagiva e KTM per sviluppare le moto in vista delle Dakar. Fu sul letto del Cellina che Meoni sviluppò la LC8 950 bicilindrica e scoprì le doti di Alessandro Botturi, molto prima che questo abbandonasse l’enduro per i rally.

Piantammo le tende sulle rive del Tagliamento, circa 2 km di dislivello più in basso del Valparola... e la minima fu di -3°. Più fredda che sulle Dolomiti! Ma, il giorno dopo, la temperatura schizzò oltre i 10 gradi, di neve non c’era ombra e noi viaggiammo per 60 km sulla ghiaia di quattro magredi diversi.

 

CONFLITTO ELEFANTEN-FINTEN

Di tutti i Finten finora disputati, quello del 2012 sulle Dolomiti è stato di gran lunga il più divertente, oltre che quello con i paesaggi migliori e con le temperature più alte. Fu talmente bello che non sembrava più un viaggio invernale. Mancava del tutto quell’atmosfera nebbiosa, freddissima, per cui guidi depresso con la sensazione che la vita sulla Terra stia per finire. No, qua sembrava un gioioso viaggio verso il mare, il sole, la felicità. Non andava bene! Se invernale doveva essere, che lo fosse, no? Allora, a dicembre 2012 dissi ai miei amici: “Basta, d’ora in poi il Finten si farà solo a fine gennaio, come l’Elefanten”. Venni stroncato immediatamente da Danilka: “Io voglio fare anche l’Elefanten, d’ora in poi. Quindi, il Finten ti tocca farlo a fine febbraio”. Ormai, Danilka era diventato un pilastro del Finten, uno dello zoccolo durissimo, un vero Coglione d’Inverno, non si poteva fare a meno di lui. Inoltre si aggiunse un altro Coglione d’Inverno, Luca Nagini, motociclista eclettico (turismo su strada, fuoristrada tecnico) che, per FUORIstrada, aveva seguito alcuni rally. Anche lui puntava all’accoppiata Elefanten-Finten, ma poi rinunciò all’Elefanten. Mentre Danilka ci andò. E io che altro potevo fare, se non augurargli un Elefanten schifoso, in modo che gli passasse la voglia? E ci presi: si fece tutto il viaggio sotto la pioggia battente, con temperature indegne di quella parte di mondo e il fango al posto della neve. Ma non bastò, perché decise di tornare anche nel 2014, questa volta con Nagini.

 

2013, SIMBRUINI

Per il 2013 decidemmo di tornare in Centro Italia, per completare il Finten 2011, compromesso dalla nostra disastrosa decisione di attraversare la Serra Sant’Antonio ricoperta di neve. Si trattava, a grandi linee, dello stesso giro, ma con alcune varianti. Volevamo rifare i 200 km di Toscana con il misto di stradine asfaltate e sterrati, ma per un percorso diverso da quello del 2011. Puntavo alle “dune d’erba” tra Lajatico e Volterra, ma poi una delle quattro new entry del 2013 propose la via Francigena e scegliemmo quella. La seconda variante: niente più accampamento a Campobuffone, ma a Camposecco. Questo era diventato famoso, negli anni Settanta, perché vi avevano piazzato l’accampamento dei Mormoni nel film “Lo chiamavano Trinità”, con Bud Spencer e Terence Hill. La terza variante... sarebbe stata, semplicemente, arrivare al Pian Grande di Castelluccio di Norcia, sui Sibillini, la sera del sabato e non la sera della domenica, come due anni prima.

Come al solito, la nostra regola-base di non accettare persone sconosciute, per evitare insulti, rinfacci e incomprensioni, non venne rispettata. Furono ben quattro le new entry, mentre per la prima volta mancava Ago Belfranz, anche lui un pilastro della compagnia. Come veterani c’eravamo noi due fratelli Ciaccia, Baypiss e Danilka, che si presentò con la sua solita XT500, travestita però in maniera estremamente commovente: il pesarese Antonio Cosi era riuscito ad avere le dimensioni esatte del serbatoio della XT500 dakariana ufficiale del 1981, quella di Serge Bacou e ne aveva realizzati due esemplari, uno per la sua XT e l’altro per Danilka. Quest’ultimo, però, si era fatto fare la livrea della XT del 1979, quella che vinse la gara con Ciryl Neveu, quindi verde, con la sella in pelle beige. Le sospensioni restavano di serie, ma il colpo d’occhio faceva lacrimare di commozione.

Si aggiungevano anche Emanuele Pasculli Avetta, presente nel 2011 ma non nel 2012 dato che era appena diventato padre e Tommaso Grazzini, al quale il Finten 2012 era piaciuto parecchio e voleva replicare.

Una delle new entry era Luca Nagini, che si presentò con la sua KTM 690 Enduro e che conoscevamo bene. Poi c’erano due amici di Sanremo, Walter e Carlo e un secondo Carlo, di Roma. Walter guidava, come Tommaso, una Yamaha Ténéré 660 di ultima generazione, il Carlo di Sanremo una Husqvarna Terra 650 e il Carlo di Roma una Yamaha Ténéré 600 del 1985, la prima con l’avviamento elettrico. Il Carlo di Roma, che però viveva a Bologna, l’avevo conosciuto via e-mail, era simpaticissimo, c’ero uscito a cena sul fiume Ticino e lo trovavo amabile e arguto, con un bello spirito. I due di Sanremo li avevo conosciuti a un giro organizzato da Corrado Capra e m’erano stati subito simpatici, perché erano dei no-carreller che il trasferimento da Sanremo a Susa se l’erano fatto per sterrati, con una Honda XL600LM e una Scorpa T-ride 250.

 

QUANDO IL CLIMA S’ACCANISCE, L’UOMO SOCCOMBE

Ma il Finten 2012 è stato tanto bello quanto il 2013 è stato un pacco. Cadde sotto una perturbazione che rese febbraio più duro di gennaio: era ciò che volevo, ma finii per pentirmene. Il maltempo si espresse sotto forma di nevicate prolungate e copiose in Pianura Padana e Appennini e piogge torrenziali in Centro Italia. Quel tipo di pioggia battente e flagellante che fa cedere anche il migliore degli antipioggia, se ti tocca guidare dal mattino alla sera in quelle condizioni.

Mio fratello, a casa sua, organizzò una fastosa cena con pizze bianche e mozzarella fresca, che uscivano dal forno a getto continuo. Ci fece dormire tutti a casa sua. Solo arrivare da lui ad Empoli, però, somigliò a un Elefantentreffen in base ai suoi concetti originali, ovvero la sfida a chi riusciva a valicare gli Appennini innevati. Partii da Cisliano mentre nevicava. I più pusillanimi furono Baypiss, Nagini ed io, perché passammo per i Giovi, in Liguria, sperando che nevicasse meno. Infatti beccammo neve, ma senza che attecchisse. Carlo di Roma si fece la Bologna-Firenze con la neve che attecchiva. I sanremesi erano già al di qua degli Appennini e la sfangarono. Tommaso si beccò un po’ di neve sul Mugello, perché lui abitava a Firenzuola. E Danilka, da Pesaro, se l’andò a cercare volutamente, affrontando il Muraglione sotto la neve. Mancava solo Pasculli Avetta, che da Roma sarebbe andato direttamente sui Simbruini. Io feci il viaggio con l’abbigliamento elettrico, che non usavo da due anni. Ed era sempre bello concedersi al suo caldo abbraccio. Peccato che lo scarico mi fuse una borsa laterale, quella con dentro una delle due giacche di piumino che portavo dietro sia per le grigliate serali, sia come alternativa in caso di guasto al riscaldamento elettrico. La giacca in piumino si fuse e io non sapevo che le piume, quando bruciano, fanno un puzzo veramente bestiale.

Il mattino dopo, però, la mia moto non partiva se non a spinta. Una volta avviata, si rimetteva in moto regolarmente, per cui diedi retta a Pirsig, autore de “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”, che diceva che se la moto aveva un problema e poi questo spariva, tanto valeva fottersene e vivere felici. Partii senza collegare l’elettrico, perché la prima parte della tappa sarebbe stata la San Miniato-Poggibonsi su sterrato, ricalcando la via Francigena: e su sterrato non fa mai freddo.

Ma la pioggia aveva reso questi sterrati argillosi una palude. Il gruppo si spaccò in vari pezzi. Chi aveva mono leggere e gomme tassellate a mescola morbida, ovvero Danilka, Carlo di Roma ed io, avanzava senza problemi. Nagini, che tecnicamente era il più bravo, aveva fatto una scelta da ragioniere: “Visto che dobbiamo fare tanta autostrada, metterò le gomme slick; in caso di neve, metterò le catene”. Ok l’autostrada, ok la neve, ma in mezzo c’era il fango, ostico sia alle slick, sia alle catene. Sicché, lui faceva fatica, in più la sua moto si ribellò e non le andava bene niente: se la teneva accesa bolliva l’acqua, se la spegneva gli moriva la batteria, ma qua eravamo sempre fermi per aiutare e spingere quelli con le moto grosse e le gomme a mescola dura, per cui ogni volta doveva scegliere se spegnerla o lasciarla accesa. I due con le Africa Twin (Baypiss e mio fratello) erano lentissimi ma se la cavavano, mentre Tommaso e i sanremesi si piantavano e cadevano spesso. Sicché, fin da subito, all’interno del gruppo si formarono diversi umori. A Carlo di Roma questo ritmo non piaceva per niente, lui non aveva problemi e non gli andava di aspettare i più lenti: la persona tanto simpatica a bocce ferme si stava rivelando completamente diversa, una volta in sella. È un classico rischio del motociclismo: “La pizzeria non è la strada”, ma ci casco sempre. Del resto, se oggi ho un meraviglioso rapporto di amicizia con i vari Danilka, Baypiss, Nagini ecc. è perché, nei loro casi, rischiare ha avuto senso. Tommaso era sempre fermo o sempre per terra, ma si divertiva un mondo. I sanremesi, invece, non si divertivano per niente, erano stanchi e invocavano il fanculing dello sterrato a favore dell’asfalto. Iniziava a formarsi un filo di tensione, ma avevo la coscienza asciutta: questo percorso lo avevano proposto loro!

 

SADDY HIGHWAY

Dopo due ore e mezza di spinte, impiantamenti e cadute avevamo percorso 12 km su 200. Era senza senso. Prendemmo l’autostrada, ma fu uno stillicidio. Si mise a diluviare senza sosta, acqua tipo cascata. La mia moto si fermò come morta e capimmo che la colpa era dell’abbigliamento elettrico, che sovraccaricava l’impianto della moto. Usavo quella moto e il giubbotto Klan dal 2002, senza mai avere problemi da parte dell'impianto elettrico, ma doveva essere successo qualcosa. Mi toccò ripartire senza elettrico, indossare la giacca in piumino superstite e dare inizio alla sessione di brividini che diventano brividoni. Anche la moto di Nagini si fermò, in quel caso perché la pioggia stava trovando breccia nell’impianto elettrico. Ma poi ripartì. Insomma, per fare 225 km di autostrada impiegammo qualcosa come 5 ore. Per il Carlo di Roma non fu un problema: alle 15, come entrammo in autostrada,  si mise a cannone e se la fece tutta fino a Carsoli in un paio d’orette, senza mai girarsi indietro, per poi aspettarci dentro una creperie. Ma non disse nulla a nessuno ed io, che lo pensavo dietro e non davanti, mi angosciai perché pensai che avesse avuto un problema. Quando ipotizzammo che invece, magari, poteva essere davanti e in fuga, i sanremesi, che non ne potevano più delle mie panne elettriche, si lanciarono al suo inseguimento.

Ad un certo punto, quello che avrebbe dovuto essere un gruppo compatto di dieci moto si era spaccato in cinque. Carlo di Roma era in fuga, tutto solo. Emanuele Pasculli Avetta, partito da Roma, gli era alle calcagna, ma non lo sapeva. I due sanremesi gli erano dietro e, quando a Carsoli lo raggiunsero, andarono in confusione: chi era questo tizio con una Honda XR400R? Il quarto gruppo era composto da me e Danilka: appena la mia moto si era rimessa in moto, gli altri mi avevano detto di partire subito senza fermarmi, per ricaricare la batteria, “che tanto ti raggiungiamo”. Ma il Nagio era rimasto in panne, per ripartire dopo parecchio, per cui quandi gli ultimi quattro ci raggiunsero a Carsoli erano le 20 passate.

 

UN'ALTRA CIACCIA SHITUATION

A Carsoli siamo arrivati bagnati, chi tanto e chi poco. Era buio, erano le 20, avevamo fame e freddo, pioveva fortissimo e la degna fine della giornata sarebbe stata un bell’albergo con trattoria, caminetto e arrosticini d'abbacchio. Invece no, il nostro scopo era salire a Camposecco, che era alto 1.300 m sul mare, per piantarci le tende. Alla sola idea, mi veniva da vomitare.

A Camerata Nuova, quota 800 m, iniziavano i 5 km di salita sterrata al 10% per l'altopiano. Erano innevati: neve abbastanza alta, resa spugnosa dalla pioggia. Dovemmo catenarci, con le moto dentro un solco pieno di acqua piovana che scorreva come se fosse stata un torrente regolarmente omologato. Danilka, fino a quel momento, aveva catenato solo la Ténéré; la XT500 montava lo stesso modello e la stessa misura di pneumatico, ma la catena si rivelò troppo piccola. Pazzesco! Probabilmente la variabile impazzita era la larghezza del cerchio. Fatto sta che lui, senza catene, saliva come noi... La neve era una schifezza. Era alta, ma ci si affondava poco e ci si scivolava molto, nonostante le catene. Dopo appena 1,5 km, però, lo strato aumentò e le moto iniziarono a piantarsi. In queste situazioni, il tempo vola. C'era chi si piantava e chi cadeva. Il tutto sotto una pioggia spaventosa, che ci entrava dappertutto. Il gruppo si spezzò in tre. Il solito Carlo di Roma aveva tentato la solita fuga solitaria, ma s'era piantato a quota 1.100 e gli era toccato tornare verso valle, a chiedere aiuto a noi, cosa che avrebbe evitato più che volentieri, perché era chiaramente in rotta e voglioso di starsene da solo. Il grosso del gruppo stava nel mezzo e si stava concentrando su un tratto spugnoso a quota 1.070, indeciso sul da farsi. Anzi, no, eravamo decisi: tornare indietro. I due di Sanremo, invece, erano in fondo. Non usavano catene bastarde come le nostre, ma fascette sperimentali che funzionavano piuttosto male. Inoltre, uno dei due cadendo s'era fatto male al ginocchio. Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso: il Carlo di Sanremo perse la pazienza, ci fanculizzò, girò la moto e, insieme a Walter, tornò a Carsoli a cercare un albergo. Ma io lo capisco. Lui è un ultrasessantenne con un'esperienza mostruosa, che percorre oltre 40.000 km all'anno in moto. Ha viaggiato ovunque, sempre ai suoi ritmi, che sono efficienti. Si è trovato con questo gruppo di gente che non conosceva, lento a prepararsi, sfiancante nelle sue soste, male organizzato. E mordeva il freno. Quando s'è ritrovato a Carsoli sotto la pioggia apocalittica e ha visto che gli stavamo imponendo una salita senza senso, sulla neve alta, di notte, già da bagnati, ha perso definitivamente la pazienza. Nei giorni successivi, tornato a casa, ci ha scritto una lunga e-mail dove elencava per filo e per segno tutte le nostre pecche. Anche le panne elettriche del DR-Z e della 690 facevano parte del pacchetto. Ne riconosco parecchie, ma su una cosa dissento: che ci fossimo andati a cercare le Ciaccia Shituation col lanternino. Quello è il rovescio della medaglia del meraviglioso mondo del mototurismo. Faccio questo lavoro dal 1992 e so quanto siano ingannatori i miei servizi. Mi vengono pubblicate foto di paesaggi spettacolari, con le tendine in cima a qualche posto da sogno e c'è sempre qualcuno che, su internet, commenta con un "E ti pagano pure". Certo che mi pagano! Perché è un lavoro, per quanto sia il più bello del mondo. Il rovescio della medaglia di una foto che fa sognare è rappresentato da tutto ciò che rende i viaggi in moto stressanti: la pioggia, il freddo, il caldo, la moto che si rompe, i troppi km da bagnato, la sella stretta, il buio, la notte, il sonno. Per questo io poco sopra ho scritto che mi veniva da vomitare, all'idea di salire a Camposecco con quel tempo. Il cuore non voleva, la testa sì, perché so sempre che ne vale la pena e se al momento non ne ho voglia è bene comunque insistere, altrimenti ciao, rovescio figo della medaglia.

Non so quante volte m'è capitato di venire accompagnato da gente che prima mi dice "E ti pagano pure", poi si scoccia e non vuole tornare più. Pensava che passassi il tempo a guidare spensierato sotto il sole, ma ha scoperto che c’è anche dell’altro e che non è piacevole. Sicché, quella stupida salita sotto la pioggia era il rovescio della medaglia della speranza di ritrovarsi, il giorno dopo, con le tendine in mezzo al Camposecco, uno dei posti più belli d'Italia, in mezzo a un metro di neve fresca e sotto un cielo blu cobalto. Ma ci andò male. Perdemmo la sfida. Non riuscimmo ad arrivarci, a Camposecco. Alle 23.30 eravamo di nuovo a Camerata Nuova. Tra andata e ritorno, tra cadute e piantate, tra incatenamento e scatenamento, avevamo buttato via tre ore e mezza per fare quattro chilometri assolutamente inutili e ci eravamo bagnati ancora di più perché, quando sudi dentro un completo in Gore-Tex, attiri l'acqua al tuo interno. Non lo dico su basi scientifiche, è la conclusione alla quale sono arrivato dopo che, ogni volta che sudo sotto la pioggia, la giacca si mette a passare l'acqua alla grande. Posso capire, perciò, perché il Carlo di Sanremo avesse sclerato. Mentre non capirò mai il Carlo di Roma, che è passato da simpaticissimo ad asociale nel giro di un rettilineo fangoso. Eppure lui era abituato a giri randagi con tanta gente, a quel che mi diceva. A quel punto, eravamo diventati un gruppo di 7 persone, più un satellite che stava in disparte e non parlava con nessuno. Va però detto che c'era questo zoccolo durissimo di pirla a cui la salita sotto la pioggia, per quanto senza senso e faticosa, aveva divertito: mio fratello, Danilka, Baypiss, Nagini, Pasculli, Tommaso ed io. Quest'ultimo non era abituato a tale genere di gite e in seguito ha raccontato che "Ero allo stremo, era dal mattino che mi prendevo la pioggia e che cercavo di non fare cadere la moto, ma ero esaltato". Per cui non ci sono buoni o cattivi, non c'è chi ha ragione e chi ha torto, c'è solo chi si diverte a fare queste cose e chi no. L'importante è stare bene separati!

 

CAMPAEGLI, DA LUOGO BUCOLICO AD HORROR SET

Ma cosa fare adesso? Non volevamo stare sotto la pioggia con le tende. L'unica era cercare di salire ad alta quota, sperando che nevicasse. Allora andammo a Campaegli, con l'idea di tornare a Campobuffone, come nel 2011. Ed avevamo ragione: quel posto era a 1.500 m e lassù nevicava. Ma tanto, tantissimo. La strada per arrivarci era innevata e insidiosa. Il paese era disabitato e ricoperto da tonnellate di neve. In giro c'erano solo cani randagi di taglia piccola. Arrivammo e sembrava il set di un film sul paranormale. Muri di neve, case chiuse, lampioni dalla luce inquietante e latrati di cani. Pensai a quelli di Muggiano (MI), che divoravano i passanti. Ma questi erano piccoli e innocui. Andare a Campobuffone era impossibile: la strada era ricoperta da un metro di neve.

Ci mettemmo parecchio a trovare un posto, a montare le tende, a grigliare la carne. Cenammo tra le due e le tre di notte. Ormai, il Finten stava diventando questa cosa qua: grigliate nel cuore della notte. Bello e divertente, ma garanzia di partenze ritardatissime il giorno dopo. Io provavo l’ennesima nuova tenda, una Westravel K2 a ombrello: costava meno di 100 euro ed era rifinita semplicemente, però si montava in pochi secondi grazie all’apertura ad ombrello, era spaziosa e teneva molto caldo.

Ovviamente a cenare eravamo in sette. Carlo di Roma, senza salutare nessuno e senza montare la tenda, era andato a letto senza cena, dentro un capanno di legno.

 

IL MILANESE

Il mattino dopo ci svegliammo sotto una nevicata spaventosa, divina, bellissima, spinta da un vento che faceva un rumore da biplano. La strada era diventata una crosta di ghiaccio vivo. Smontammo le tende, caricammo le moto e le catenammo ma, sotto i 1.300 m, la neve diventò pioggia, da impazzire. Arrivammo a Carsoli ed eravamo già bagnati. Entrammo in un bar e, messi in carica i telefoni, scoprimmo che i sanremesi erano già partiti per i Sibillini. E furono gli unici ad arrivarci! Dentro il bar ci fu un crollo della motivazione. Pasculli, Tommaso e Carlo di Roma annunciarono che sarebbero tornati a casa seduta stante. Rimase lo zoccolo durissimo dei Coglioni d'Inverno, ovvero Baypiss, mio fratello, Danilka, Nagio ed io. Ma rimanemmo intrappolati a Carsoli: ancora una volta, il mio DR-Z e il 690 di Nagio facevano le bizze. La mia funzionava, ma solo al minimo e solo con l'aria tirata. Come davo gas, si spegneva. Il 690 invece aveva un'erogazione isterica: spento, acceso ma irregolare, spento, acceso ma fiacco, spento, spento, spento. Era un sabato mattina ad Arsoli, in giro non c'era nessuno, ficcammo le moto sotto la pensilina di una fermata d'autobus e chiedemmo in un bar se c'era un meccanico. Nel bar erano gentili e chiamarono un tipo scontroso detto "Il Milanese", che girava con una specie di pellicciotto di lana, veniva lui dai clienti e non portava attrezzi. Un mito. Mise le mani sulla KTM, trattandola per tutto il tempo come una moto a carburatore, mentre della mia mi chiese se partiva "all'americana" (a spinta?). Passò la giornata a smontare il carburatore della 690 (nonostante il Nagio gli ripetesse di continuo che era a iniezione), finché non ripartì. Quanto alla mia, disse che c'era una gocciolina d'acqua dentro un getto, e che l'unico modo di curarla era di avviarla con l'aria tirata e di dare gas levando l'aria, fino a farle raggiungere i 58.000 giri al minuto, il tutto dentro la pensilina dell'autobus che, nel frattempo, s'era riempita di ragazzi e persone anziane. Nessuno protestava per quell'intrusione, a parte il Milanese, che li cacciava sotto la pioggia: "Aoh, io devo lavora'!".

La giornata finì in maniera incresciosa. Prendemmo due stanze in una trattoria fuori Carsoli, un posto veramente molto scozzese, perché sorgeva in riva a un fiume e nel menù c'erano le trote pescate dal proprietario. Mettemmo tutti i vestiti ad asciugare e ci presentammo a cena in calzamaglia, una roba oscena; e secondo me c'era pure una sfacciata che ci guardava il pacco. Ovviamente non posso negare che la doccia calda, il letto col piumone e la cena in trattoria mi piacquero moltissimo. A cena si discusse sulla debacle delle due moto moderne del gruppo, mentre le due Africa Twin e la XT500 giravano come orologi.

Nel frattempo, Tommaso e Carlo di Roma viaggiavano verso nord, flagellati dalla pioggia e, ovviamente, ognuno per sé. Carlo valicò gli Appennini sotto la neve, Tommaso si fermò stremato a dormire a Firenze e solo l'indomani ripartì per il Mugello.

 

I SANTI DI BOLOGNA

La domenica pioveva ancora. Alla tv dell'albergo annunciavano nevicate in Pianura Padana e sui valichi appenninici. Allora, mentre mio fratello partiva tutto solo per Empoli, noi puntammo verso il mare Adriatico, perché sembrava che in Abruzzo nevicasse meno che in Emilia. Dovendo valicare gli Appennini, insomma, tanto valeva farlo subito. Erano 710 km fino a casa mia (Cisliano) e 840 fino a casa di Nagio (Domodossola), quindi un tappone notevole da fare con delle monocilindriche tassellate. Nevicò debolmente fino al valico di Tornimparte, poi basta. Come uscimmo dal tunnel del Gran Sasso, fummo investiti da una folata di aria calda. Era primavera, sulla costa adriatica. C'era il sole, faceva caldo, era bello arrivarci dopo tutto quello stare in ammollo. A Pesaro salutammo Danilka, quindi arrivammo a Rimini e fu come entrare in un freezer. Non c'erano tunnel di Cartoonia o armadi di Narnia tra Rimini e Forlì, ma in quel lasso di spazio la temperatura si abbassò di dieci gradi. Ci ritrovammo a guidare in mezzo alla steppa innevata della Padania, come in Siberia. Dio, che bello! Avremmo dovuto fare il Treffen a Faenza. E quasi ci riuscimmo, perché a Faenza l'Africa Twin di Baypiss ammutolì per colpa della morte del regolatore di tensione. "Poco male, ne ho sempre uno di scorta" disse Baypiss sereno, frugando nei bagagli. Ma il regolatore non c'era. Tra le varie ipotesi per uscirne (tipo lasciare la moto in autogrill e tornare in due sul DR-Z con tutti i bagagli!) vinse quella di chiedere aiuto a Francesco Catanese, il rallysta specializzato in bicilindriche che testa le maxienduro su FUORIstrada. Si innescò una cordata di persone disponibili e generose, come nei più bei racconti a sfondo motociclistico: Catanese venne a prendere l'Africa Twin con auto e carrello, Giampaolo Mucci mise a disposizione il suo capanno e il regolatore di tensione preso, se ricordo bene, da una Yamaha R1 e Paolo Govoni montò il regolatore sull'Africa Twin. Mucci, noto come GP Mucci, è l'autore delle più belle Africa Twin preparate per il fuoristrada serio. Le alleggerisce, alza le sospensioni, sposta il serbatoio e le dota di sovrastrutture in alluminio simili a onde del mare. Govoni, invece, è un elettrauto che lavora sui tram e che ha dotato la sua Africa Twin di una impressionante serie di diavolerie elettroniche (oltre a un paio di sci!). Catanese si rivelò rallysta fino al midollo: lui è di Bologna e io gli dissi una cosa molto semplice, "Siamo nel primo autogrill dopo l'uscita di Faenza dell'autostrada, in direzione Bologna". Ma lui non ne voleva sapere: o gli davamo il punto Gps, o non si sarebbe mosso.

 

A mezzanotte ringraziammo quelle bravissime persone e proseguimmo il nostro viaggio verso nord. Da Bologna a Modena andammo per stradine di campagna, con 4 gradi sotto lo zero e 30 cm di neve ai bordi. Sembrava veramente la steppa russa. A Milano nevicava e ci arrivammo alle tre della mattina. Dove abitavo io, a Cisliano, le strade erano pulite; dove abitava Baypiss, a Seregno, erano tutte innevate. Il povero Nagio si fermò a dormire da me. La mattina dopo gli proposi di venire in redazione facendo le sterrate innevate, ma si mise a piovere, la neve iniziò a sciogliersi e la sua moto ammutolì di nuovo. Panne elettrica. Nooooo! Di nuovo! Come la moto ripartì, lui non volle sapere altro, mi salutò, si buttò in autostrada e raggiunse Domodossola senza soste, col terrore di rimanere a piedi in ogni dove. Fu a quel punto che decise che avrebbe venduto la 690 e che avrebbe fatto tutto con l'altra moto, una KTM 450 EXC da agonismo puro. Rapporti allungati, serbatoio da 15 litri, portapacchi, coprisella in neoprene, pila frontale potente sul casco. Da allora, è felice. Con quella moto ha già fatto lunghi giri, partendo direttamente da Domodossola, come la Hardalpitour 2013, il Memorial Della Santa 2013, un giro in Sicilia (con imbarco a Genova), l'Elefantentreffen 2014... e pure il Fintentreffen 2014. Alla fine, il bilancio di questo Finten sembrò non poter essere che disastroso: troppo fango, troppa pioggia, moto in panne, gente scocciata, ritorni nel cuore della notte. Dopo avere sentito i racconti, chi era stato a casa disse: "Ho fatto bene a restare a casa". E io penso: avrei fatto meglio a restare a casa? No. Anche un giro disastroso come questo merita di essere vissuto.

 

FINTENTREFFEN 2014

Non posso parlarne in questa sede! Devo prima produrre l'articolo cartaceo per Motociclismo FUORIstrada di aprile. Dirò solo che si è svolto sulle Alpi Occidentali: partenza dal Po, quindi Cuneo, superamento dei valichi Maddalena, Vars, Monginevro e Sestriere, una notte dentro una palafitta di legno, una dentro una casa diroccata e una sopra un ponte. Ancora a febbraio, perché Danilka e Nagio sono andati all'Elefantentreffen. Tra il Po e Cuneo abbiamo trovato fangaie ancora peggiori di quelle del 2013, abbiamo avuto un'altra panne elettrica (una vecchia BMW, questa volta), siamo saliti sulla Maddalena sotto la neve e poi ci siamo goduti due giornate da urlo, con cielo blu e neve tutto intorno. Nessuna litigata, questa volta. Ma è apparso sempre più chiaro che siamo dei cazzoni, che grigliano carne fino alle quattro e mezza della mattina e poi la mattina dopo sono incapaci di partire presto, perdendosi svariate ore di luce per viaggiare. Certe volte, più che Coglioni, mi sembra di essere dei coglioni.

© RIPRODUZIONE RISERVATA