CIACCIA SHITUATION
Di notte fece meno quattro, quindi uscì il sole e sembrava estate. Con una strada innevata superammo il passo che ci separava da Monte Livata, località sciistica diventata famosa a Capodanno 2014, quando una mamma s'è persa nel bosco coi figli. A fine febbraio 2011, questa località era in sbaraccamento totale. La neve era marcia, gli impianti e gli alberghi erano chiusi, c'erano già le prime moto da strada provenienti da Roma per inaugurare la bella stagione. Il sole picchiava, veniva voglia di andare al mare. Altro che raduno invernale... Intanto, sull'altra costa d'Italia, a Fermo, Alessio Corradini stava comprando tonnellate di carne per la grande grigliata che avremmo fatto nel Pian Grande di Castelluccio di Norcia la sera stessa. Ma noi non ci arrivammo mai.
I miei denigratori definiscono “Ciaccia Shituation” quella fase di una gita in cui io prometto che, per fare un dato percorso, occorrerà un certo tempo, assicuro a tutti un arrivo entro cena e poi finiamo per piantarci, o perderci, senza vedere vie di uscita per un tempo infinito. Non è un mio vanto. Il soprannome me lo diedero negli anni 90, quando programmavo gite in bicicletta in zone impervie e sconosciute, che finivano per inghiotterci per sempre. Si puntava a uscire dal bosco per le 17 e invece lo facevamo alle 22. Io venivo insultato. Col tempo capii che dovevo essere più affidabile e programmare gite più corte e con tempi stimati più lunghi, ma ogni tanto toppo in pieno, perché il fuoristrada non è mai prevedibile. Non ci piacerebbe, altrimenti! La gente si divide tra coloro che si divertono, nel ritrovarsi in Ciaccia Shituation e chi, invece, ne è inorridito, mi insulta e non vuole vedermi mai più.
Ma cosa successe questa volta? Alle 15 arrivammo in cima a un valico molto interessante, la Serra di Sant'Antonio, 1.600 m, sopra al quale si trova una delle località sciistiche più alte del Centro Italia, Campo Staffi, alta ben 1.800 m sul mare, quanto Livigno. Il passo segna il confine tra Lazio e Abruzzo e la cosa ebbe una sua importanza, perché il versante abruzzese non era stato spalato e la neve era alta mezzo metro. Porca miseria! Adesso ci toccava tornare di sotto, andare a Subiaco, aggirare i Simbruini passando per Arsoli e Carsoli... Povero Corradini, chissà per quanto tempo ci avrebbe aspettato in mezzo al Pian Grande... Allora qualcuno di noi, vedendo che un 4x4 aveva lasciato dei solchi, propose di catenare le moto e di tentare la via dei solchi. Ci tengo a dire che fu “qualcuno di noi” perché io, questa volta, ero per la via della saggezza. Era chiaramente una Ciaccia Shituation, ma non fu proposta da me. Tuttavia, quando quel qualcuno lo propose, io applaudii con entusiasmo. Alle 16 ci gettammo lì dentro e fu la nostra fregatura. I primi 200 m erano in discesa e la neve era fresca e farinosa, per cui le moto ci galleggiavano sopra ed era una goduria pazzesca. Ma poi la strada diventò in piano, girò intorno alla montagna e passò su un versante dove la neve era crostosa sopra e molle sotto. Le moto sprofondavano e si piantavano. Iniziammo a fare una fatica pazzesca, ma tornare indietro sarebbe stato ancora peggio. Più avanzavamo e più ci illudevamo che la discesa sarebbe ripresa e che la neve sarebbe diminuita, ma non succedeva. Allora ci veniva il panico: e se i solchi del 4x4 fossero destinati a finire da qualche parte, anziché percorrere tutta la strada? Alle 18, cioè dopo due ore di spinte, il sole era tramontato e avevamo percorso appena 1.700 metri. Ma, per i successivi 300 metri, occorse un'altra ora. Più avanzavamo e più le moto si piantavano. La peggiore era la mia BMW, che aveva così poca luce a terra da incastrarsi di continuo. Era messa persino peggio della R 1200 GS di Pasculli, i cui cilindri erano posti più in alto di quello che si può supporre. L'Africa Twin di mio fratello faceva le bizze ed erogava la potenza di un cinquantino, finché lui non scoprì che lo scarico si era crepato e vomitava gas di scarico direttamente dentro la cassa filtro. Pur di avanzare, mio fratello tolse il filtro. La cosa pazzesca è che lui usa tutti i giorni la moto per andare al lavoro, all'epoca aveva già passato i 200.000 km e attualmente non si sa quanti km abbia, dato che lui è uso rompere gli strumenti e non ripararli; ma il motore è sempre lo stesso, quel poveretto che, sui Simbruini, ha ingerito i suoi stessi gas di scarico.
Nel frattempo, Alessio Corradini si trovava al buio in mezzo al Pian Grande e continuava a telefonarci per sapere quando saremmo arrivati. Non capiva la situazione: ogni volta io rispondevo col fiatone, spiegando che eravamo piantati nella neve alta a 170 km da lui. "Ho capito, ma quando arrivate?". "NON-LO-SO! Siamo piantati qua dentro come dei coglioni". "Sì, ma io sono qua da solo, quindi quando arrivate?". "Non lo soooooo!". "Ho comprato quintali di carne per tutti voi! Quando arrivate?". Alle 19 glielo dissi: "Siamo sfiniti, ci fermiamo qui a dormire". La prese male. Non ci credeva.
Noi ci fermammo a dormire perché avevamo esaurito le forze fisiche e psicologiche. Alle 18 avevamo mandato avanti Danilka e Ago Belfranz, perché loro avevano le monocilindriche leggere, strette e alte da terra. Volevamo che arrivassero alla fine della tratta innevata e che ci telefonassero: "Coraggio, ancora 500 metri ed è finita". Invece, anche loro impazzirono per avanzare 300 metri. Arrivarono ad una curva oltre la quale il vento era molto forte, persero ogni speranza e tornarono indietro a piedi a proporre di fermarci, riposarci, dormire e ripartire il giorno dopo, sperando che di notte gelasse e si indurisse. Ancora non lo sapevamo, ma avevamo percorso appena 2 di 9 km conciati tutti in quel modo. Questa cosa avrebbe potuto succedere anche durante un giro in giornata, senza bagagli e sarebbe stata una tragedia. Avremmo dovuto passare la notte senza essere equipaggiati. Invece, questa volta avevamo le tende, i sacchi a pelo, l'acqua, la pasta, il sugo all'amatriciana, la legna per il fuoco. Ci accampammo in mezzo alla strada e passammo una bella serata, anche se non facemmo altro che discutere sul da farsi, tipo:
1. Sperare che ghiacciasse tutto, si indurisse e permettesse alle moto di avanzare affondando di meno;
2. Aspettare la primavera;
3. Scendere a piedi e convincere qualcuno a portarci via le moto con un trattore;
4. Telefonare all'Ansa che ci mandasse uno spazzaneve;
5. Andarcene a piedi, abbandonare le moto al loro destino e portarci via le targhe, per non farci beccare.
Per fortuna che la risposta giusta si rivelò la 1. Di notte fece -8°, la neve diventò dura, ci alzammo alle 6, smontammo tutto e ripartimmo; quei 7 km li facemmo in tre ore. La cosa eccezionale, secondo me, fu che tra tutti e cinque nessuno diede in escandescenze. Nessuno accusò qualcuno di avere avuto questa idea cretina. Non ci furono rinfacciamenti. Non ci furono momenti di sconforto o di nervosismo. Avevamo avuto una pessima idea, ma avevamo insistito e ci eravamo fatti 9 km in 6 ore, da veri dementi. Ma avevamo vissuto fortissimi momenti di amicizia, con due new entry nel mondo dei Coglioni d'Inverno. Con altre persone, un errore simile avrebbe portato allo scoppio della Quarta Guerra Mondiale (perché dopo il crollo delle Torri Gemelle mi viene da considerare il conflitto Occidente-Al Qaeda come una sorta di Terza Guerra Mondiale).
Arrivati sull'asfalto, lo baciammo. Ma ci dividemmo: mio fratello, Ago Belfranz e Pasculli Avetta tornarono subito a casa, mentre io e Danilka partivamo per il Pian Grande, telefonando pure a Corradini. Dopo il nostro pacco, lui era tornato a casa sua, a Fermo ma non era così incazzato da non accettare di fare di nuovo un salto. Non ci passammo la notte, arrivammo lassù al tramonto, facemmo un pic nic con focaccia, formaggi e salumi e poi ripartimmo per tornare a casa. La strada era, più o meno, la stessa: Corradini doveva andare a Fermo, Danilka a San Giorgio di Pesaro ed io a Cisliano (MI), dove ero appena andato a vivere. Ma Danilka venne a sapere che, sul valico della Scheggia, stava nevicando e quindi ci salutò per passare di lì. Io pensai: "Questo è peggio di me. Questo è malato...". A me venne un colpo della strega micidiale e non fui più in grado di guidare, per cui Alessio mi ospitò a casa sua, dove mi ammalai. La mattina dopo ripartii, col mal di schiena e la febbre e mi feci tutto il viaggio fino a Milano sotto la pioggia. 500 km tra i più brutti della mia vita, perché, avendo la febbre, soffrivo il freddo pur avendo l'abbigliamento elettrico. Non feci altro che sognare una doccia calda ma, una volta arrivato a casa, scoprii che eravamo senz'acqua a causa di un tubo rotto.
Non seppi che giudizio dare a questo Finten. Ciò che spiccava, sopra ogni cosa, era il sentimento di amicizia che ci aveva legato su quella strada maledetta.
2012, DOLOMITI E MAGREDI
Nel 2012 feci un errore. Chiesi agli amici se volevano fare il Finten a gennaio o febbraio e i furbetti risposero "febbraio", suppongo perché faceva più caldo. Inoltre, in diversi si dichiararono interessati, purché si girasse vicino a casa loro: erano persone che mai e poi mai avrebbero fatto l'Elefanten, tanto che definimmo il termine "Local" per distinguerli dai "Treffer". Insomma, il Finten stava diventando la versione soft dell'Elefanten, un Faraoni più che una Dakar. Ma gennaio fu mite, mentre a febbraio arrivò un'ondata di freddo polare, con minime di -15° / -20° in Pianura Padana e una nevicata spaventosa nelle Marche, con metri di neve persino sulla costa adriatica. Passammo giornate a discutere su dove andare: traversata nord-sud delle Marche (quando ci sarebbe ricapitata tutta quella neve?), Dolomiti + Magredi del Friuli, Po + Alpi Francesi? Per ciascuno di questi tre itinerari c'era almeno un "local" che ci tirava per la giacchetta per fare il giro dalle sue parti, rifiutandosi però di partecipare agli altri percorsi. Nel frattempo, però, l’ondata di freddo finì.
Alla fine optammo per le Dolomiti, per un motivo semplice ma essenziale: erano quelle che promettevano il maggiore divertimento di guida. Un enorme divertimento è però anche prendere in mano una mappa e tracciare un percorso. In questo caso, come degno accampamento d'inizio pensammo alla Piana di Marcesina che, pur essendo alta "solo" 1.300 m, ha delle caratteristiche da dolina, ovvero accumula aria fredda sul fondo. Ogni anno il termometro vi scende a livelli scandinavi, tanto che viene chiamata "la Finlandia d'Italia". Il record è stato raggiunto nel marzo del 2005, con 34 gradi sotto lo zero. Lo scrittore Mario Rigoni Stern parlò di questo posto in toni poetici, riferendosi a due amanti su una slitta in una notte di luna piena. La Piana non ha paesi, ma baite isolate e il rifugio Barricata gestito da Urbano Caregnato, che ha piazzato una stazione metereologica Vantage Vue della Davis, per registrare le temperature durante tutto l'inverno. Il rifugio d'inverno è chiuso, ma la stazione è sempre attiva e Urbano va spesso a controllarla. Lo hanno anche intervistato in televisione, qualche anno fa.
Una volta beccato il luogo ideale per l'accampamento, si passa a una bella strada per arrivarci ed ecco che l'ideale ci sembrò partire da Trento, accedere all'altopiano di Lavarone facendo la Kaiserjagerstrasse (una tortuosissima e panoramica strada suggeritami da Franz Ferro) e passare all'altopiano di Asiago per la famosa strada del Passo di Vezzena, che attraversa quello che un tempo era il confine tra Italia ed Austria ai tempi della Grande Guerra e che oggi divide il Trentino dal Veneto. La Kaiserjager me la feci al tramonto e arrivai al più panoramico dei suoi tornanti, dove avevo appuntamento con Andrea Torresan, un appassionato di Aprilia Tuareg. Mi godetti tutta la sua salita, ammirando il panorama (il sole che si specchiava nel lago di Caldonazzo, le luci dei paesi che si accendevano) e ascoltando il pum pum del suo monocilindrico che saliva passando da un tornante all'altro.
Ad Asiago incontrai il "solito" Ago Belfranz, ormai abbonato al Finten e un suo amico, Tommaso Grazzini. Anche in questa occasione, dunque, c'erano due nuovi partecipanti e, quindi, avevo il timore che non ci capissimo e che finisse in lite, o in scisma. Ma le condizioni sempre favorevoli in cui si svolse questo Finten scongiurarono il pericolo.
PAPPEMOLLI!
Arrivare a Marcesina fu fantastico: c'erano 7 km di strada innevata. Le mie Dunlop Geomax salivano senza problemi, mentre le Michelin T63 della Honda XR400R di Ago Belfranz e dell'Aprilia Tuareg 600 di Andrea Torresan non avevano alcun grip e dovettero venire catenate. Poi c'era Tommaso, che guidava una BMW G 650 Xcountry dotata di gomme Heidenau K60 Snow, specifiche da neve, con la mescola a base di silice. Ma che delusione, che si rivelarono! Erano come le T63, non avevano alcun grip, per lo meno su quel tipo di fondo (crosta di ghiaccio ricoperta da uno strato di 5 cm di neve fresca).
Marcesina faceva paura. Era veramente disabitata, ma in fondo alla conca, tra gli alberi, c'era un'inquietante luce rossa. Pensammo subito ad alieni assassini provenienti da Plutone, invece era la Davis Vantage Vue di Urbano Caregnato. Dopo la consueta grigliata, con chiacchiere fino alle tre della mattina, andammo a nanna, ma il termometro scese ad appena sette gradi sotto lo zero. Quando ci svegliammo, arrivò una Land Rover Discovery e dal suo interno scese Urbano Caregnato in persona, che ci diede delle pappemolli per avere dormito con -7° al posto di -34°. "Ma noi speravamo nei -40°", tentammo di convincerlo della nostra buona fede, senza riuscirci. "E poi quest'auto – disse, indicando la sua Discovery – è partita quasi subito, dopo la notte a meno trentaquattro!". Io dormii dentro una tenda II Seconds di Decathlon, quella che si monta semplicemernte lanciandola e che, da chiusa, misura 55 cm nella versione più piccola. Fu una scoperta: costava appena 29 euro, era caldissima (anche d'estate, purtroppo), aveva tanto spazio per una persona e i bagagli invernali e si montava veramente in un attimo, con telo interno e telo esterno già fissati tra loro. Per chiuderla, se si imparano le tre azioni si è velocissimi. Purtroppo, adesso Decathlon ne ha fatto uscire la nuova versione, che non solo costa 10 euro in più, ma è anche un po' più grande e, da chiusa, è un disco da 61 cm. Sul mio DR-Z, mettendola chiusa sulla sella i suoi 55 cm erano giusti giusti tra chiappe e faro posteriore. 6 cm in più mi sembrano davvero troppi.
MAMMA PORDOI
Il resto della giornata fu caldo e soleggiato. Superammo i passi Rolle, Valles, San Pellegrino senza patire alcun freddo e guidando sempre su strade asciutte. No, non sembrava un Elefante e c'era da stupirsi che non ci fossero altre moto in giro. E infatti eccone una, proveniente dal senso contrario, a Canazei: un tedesco su un'Africa Twin vecchissima, tutta sporca di sale e stracarica di bagagli. Lo salutammo, poi capimmo che non era un tedesco, ma mio fratello, partito in mattinata da Empoli e che ci stava cercando tra Canazei e Moena di Fassa. Un altro puntello lo avevamo con Baypiss, che però sarebbe partito da Milano dopo il lavoro. Allora salimmo in cima al Passo Pordoi e ci piazzammo dentro un bar per aspettarlo, mentre fuori si scatenava un vento così forte da far cadere una delle moto. La donna che gestiva il bar ci adottò. Disse che avrebbe dovuto chiudere, ma tanto aveva poco da fare, era sola e quindi accettò di restare aperta fino all'arrivo di Baypiss; poi ci disse che non aveva mai visto gente in moto così presto sul passo (in realtà, io ero già passato di qui quattro volte, in altrettanti gennaio degli anni passati, tre delle quali di ritorno dall'Elefanten); e, quando capì che intendevamo dormire in tenda con quel vento, si dimostrò preoccupatissima come se fosse stata nostra madre e ci diede il numero di telefono del ragazzo che ripassava le piste col gatto delle nevi, "Così se siete nei guai lo chiamate e lui arriva di corsa".
VALPAROLA, IL POSTO PERFETTO
Come sede della seconda notte la scelta era caduta sul Passo di Valparola, alto 2.200 m, perché non è aguzzo come il Sella, né abitato come il Pordoi: ha un pianoro lungo oltre 1 km, disabitato, dunque si presta al campeggio libero. C'era molto vento, ma ci sistemammo, facemmo la solita grigliata e tendemmo l'udito per sentire il pum pum della moto di Danilka, ma ci stufammo e, alle due del mattino, andammo a nanna. Danilka arrivò alle tre della mattina. Sorpresa: non aveva la sua amata Yamaha XT500, ma un’altrettanto fascinosa XT600Z Ténéré prima serie. La sorpresa derivava dal fatto che lui la XT500 l’aveva comprata da Toni Valeruz, il mitico sciatore di Canazei che è stato tra i profeti dello sci estremo (ha iniziato negli anni 70, è sceso da posti assurdi come il Cervino e il Makalu e un anno fa, a 62 anni, è sceso dal Gran Vernel) e, quindi, ci teneva a riportarla sulle Dolomiti.
LA DAKAR ITALIANA
La mattina dopo ci rendemmo conto che il Valparola era ancora più perfetto di quello che avevamo pensato sulla carta. La luce del giorno ci mostrò che eravamo in cima a una terrazza panoramica a vista Marmolada, Averau, Nuvolau. Uno spettacolo. Si trattava del posto più alto dove avessi mai piantato la tenda durante un treffen invernale, ma la temperatura minima ci sbeffeggiava: due gradi sotto lo zero. Mi venne in mente quella volta in cui andai a fare Capodanno a Helsinki, con una temperatura minima di -2 °C, mentre a Milano, negli stessi giorni, c’erano -11°.
Andammo a pranzare sul Passo Giau, uno dei più belli delle Dolomiti e poi, attraverso la Forcella Staulanza, andammo a Longarone, tristemente famosa per essere stata distrutta dalla frana del Monte Toc che, nel 1963, fece sbordare l’acqua di un lago artificiale oltre la diga, provocando circa 2.000 morti. Da quel lago inizia la strada che costeggia il fiume Cellina, stupenda, poco frequentata e selvaggia, quasi tutta dentro canyon. L’acqua è blu turchese. Dopo il lago di Barcis, si sfocia nelle pianure friulane che, per un appassionato di rally africani in moto, sono luoghi di culto. Qui, infatti, i fiumi hanno l’abitudine di interrarsi, lasciando sopra di loro un mare di ghiaia: sono i “magredi”, dei veri e propri deserti dove, in passato, venivano ad allenarsi i team Cagiva e KTM per sviluppare le moto in vista delle Dakar. Fu sul letto del Cellina che Meoni sviluppò la LC8 950 bicilindrica e scoprì le doti di Alessandro Botturi, molto prima che questo abbandonasse l’enduro per i rally.
Piantammo le tende sulle rive del Tagliamento, circa 2 km di dislivello più in basso del Valparola... e la minima fu di -3°. Più fredda che sulle Dolomiti! Ma, il giorno dopo, la temperatura schizzò oltre i 10 gradi, di neve non c’era ombra e noi viaggiammo per 60 km sulla ghiaia di quattro magredi diversi.
CONFLITTO ELEFANTEN-FINTEN
Di tutti i Finten finora disputati, quello del 2012 sulle Dolomiti è stato di gran lunga il più divertente, oltre che quello con i paesaggi migliori e con le temperature più alte. Fu talmente bello che non sembrava più un viaggio invernale. Mancava del tutto quell’atmosfera nebbiosa, freddissima, per cui guidi depresso con la sensazione che la vita sulla Terra stia per finire. No, qua sembrava un gioioso viaggio verso il mare, il sole, la felicità. Non andava bene! Se invernale doveva essere, che lo fosse, no? Allora, a dicembre 2012 dissi ai miei amici: “Basta, d’ora in poi il Finten si farà solo a fine gennaio, come l’Elefanten”. Venni stroncato immediatamente da Danilka: “Io voglio fare anche l’Elefanten, d’ora in poi. Quindi, il Finten ti tocca farlo a fine febbraio”. Ormai, Danilka era diventato un pilastro del Finten, uno dello zoccolo durissimo, un vero Coglione d’Inverno, non si poteva fare a meno di lui. Inoltre si aggiunse un altro Coglione d’Inverno, Luca Nagini, motociclista eclettico (turismo su strada, fuoristrada tecnico) che, per FUORIstrada, aveva seguito alcuni rally. Anche lui puntava all’accoppiata Elefanten-Finten, ma poi rinunciò all’Elefanten. Mentre Danilka ci andò. E io che altro potevo fare, se non augurargli un Elefanten schifoso, in modo che gli passasse la voglia? E ci presi: si fece tutto il viaggio sotto la pioggia battente, con temperature indegne di quella parte di mondo e il fango al posto della neve. Ma non bastò, perché decise di tornare anche nel 2014, questa volta con Nagini.
2013, SIMBRUINI
Per il 2013 decidemmo di tornare in Centro Italia, per completare il Finten 2011, compromesso dalla nostra disastrosa decisione di attraversare la Serra Sant’Antonio ricoperta di neve. Si trattava, a grandi linee, dello stesso giro, ma con alcune varianti. Volevamo rifare i 200 km di Toscana con il misto di stradine asfaltate e sterrati, ma per un percorso diverso da quello del 2011. Puntavo alle “dune d’erba” tra Lajatico e Volterra, ma poi una delle quattro new entry del 2013 propose la via Francigena e scegliemmo quella. La seconda variante: niente più accampamento a Campobuffone, ma a Camposecco. Questo era diventato famoso, negli anni Settanta, perché vi avevano piazzato l’accampamento dei Mormoni nel film “Lo chiamavano Trinità”, con Bud Spencer e Terence Hill. La terza variante... sarebbe stata, semplicemente, arrivare al Pian Grande di Castelluccio di Norcia, sui Sibillini, la sera del sabato e non la sera della domenica, come due anni prima.
Come al solito, la nostra regola-base di non accettare persone sconosciute, per evitare insulti, rinfacci e incomprensioni, non venne rispettata. Furono ben quattro le new entry, mentre per la prima volta mancava Ago Belfranz, anche lui un pilastro della compagnia. Come veterani c’eravamo noi due fratelli Ciaccia, Baypiss e Danilka, che si presentò con la sua solita XT500, travestita però in maniera estremamente commovente: il pesarese Antonio Cosi era riuscito ad avere le dimensioni esatte del serbatoio della XT500 dakariana ufficiale del 1981, quella di Serge Bacou e ne aveva realizzati due esemplari, uno per la sua XT e l’altro per Danilka. Quest’ultimo, però, si era fatto fare la livrea della XT del 1979, quella che vinse la gara con Ciryl Neveu, quindi verde, con la sella in pelle beige. Le sospensioni restavano di serie, ma il colpo d’occhio faceva lacrimare di commozione.
Si aggiungevano anche Emanuele Pasculli Avetta, presente nel 2011 ma non nel 2012 dato che era appena diventato padre e Tommaso Grazzini, al quale il Finten 2012 era piaciuto parecchio e voleva replicare.
Una delle new entry era Luca Nagini, che si presentò con la sua KTM 690 Enduro e che conoscevamo bene. Poi c’erano due amici di Sanremo, Walter e Carlo e un secondo Carlo, di Roma. Walter guidava, come Tommaso, una Yamaha Ténéré 660 di ultima generazione, il Carlo di Sanremo una Husqvarna Terra 650 e il Carlo di Roma una Yamaha Ténéré 600 del 1985, la prima con l’avviamento elettrico. Il Carlo di Roma, che però viveva a Bologna, l’avevo conosciuto via e-mail, era simpaticissimo, c’ero uscito a cena sul fiume Ticino e lo trovavo amabile e arguto, con un bello spirito. I due di Sanremo li avevo conosciuti a un giro organizzato da Corrado Capra e m’erano stati subito simpatici, perché erano dei no-carreller che il trasferimento da Sanremo a Susa se l’erano fatto per sterrati, con una Honda XL600LM e una Scorpa T-ride 250.
QUANDO IL CLIMA S’ACCANISCE, L’UOMO SOCCOMBE
Ma il Finten 2012 è stato tanto bello quanto il 2013 è stato un pacco. Cadde sotto una perturbazione che rese febbraio più duro di gennaio: era ciò che volevo, ma finii per pentirmene. Il maltempo si espresse sotto forma di nevicate prolungate e copiose in Pianura Padana e Appennini e piogge torrenziali in Centro Italia. Quel tipo di pioggia battente e flagellante che fa cedere anche il migliore degli antipioggia, se ti tocca guidare dal mattino alla sera in quelle condizioni.
Mio fratello, a casa sua, organizzò una fastosa cena con pizze bianche e mozzarella fresca, che uscivano dal forno a getto continuo. Ci fece dormire tutti a casa sua. Solo arrivare da lui ad Empoli, però, somigliò a un Elefantentreffen in base ai suoi concetti originali, ovvero la sfida a chi riusciva a valicare gli Appennini innevati. Partii da Cisliano mentre nevicava. I più pusillanimi furono Baypiss, Nagini ed io, perché passammo per i Giovi, in Liguria, sperando che nevicasse meno. Infatti beccammo neve, ma senza che attecchisse. Carlo di Roma si fece la Bologna-Firenze con la neve che attecchiva. I sanremesi erano già al di qua degli Appennini e la sfangarono. Tommaso si beccò un po’ di neve sul Mugello, perché lui abitava a Firenzuola. E Danilka, da Pesaro, se l’andò a cercare volutamente, affrontando il Muraglione sotto la neve. Mancava solo Pasculli Avetta, che da Roma sarebbe andato direttamente sui Simbruini. Io feci il viaggio con l’abbigliamento elettrico, che non usavo da due anni. Ed era sempre bello concedersi al suo caldo abbraccio. Peccato che lo scarico mi fuse una borsa laterale, quella con dentro una delle due giacche di piumino che portavo dietro sia per le grigliate serali, sia come alternativa in caso di guasto al riscaldamento elettrico. La giacca in piumino si fuse e io non sapevo che le piume, quando bruciano, fanno un puzzo veramente bestiale.
Il mattino dopo, però, la mia moto non partiva se non a spinta. Una volta avviata, si rimetteva in moto regolarmente, per cui diedi retta a Pirsig, autore de “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”, che diceva che se la moto aveva un problema e poi questo spariva, tanto valeva fottersene e vivere felici. Partii senza collegare l’elettrico, perché la prima parte della tappa sarebbe stata la San Miniato-Poggibonsi su sterrato, ricalcando la via Francigena: e su sterrato non fa mai freddo.
Ma la pioggia aveva reso questi sterrati argillosi una palude. Il gruppo si spaccò in vari pezzi. Chi aveva mono leggere e gomme tassellate a mescola morbida, ovvero Danilka, Carlo di Roma ed io, avanzava senza problemi. Nagini, che tecnicamente era il più bravo, aveva fatto una scelta da ragioniere: “Visto che dobbiamo fare tanta autostrada, metterò le gomme slick; in caso di neve, metterò le catene”. Ok l’autostrada, ok la neve, ma in mezzo c’era il fango, ostico sia alle slick, sia alle catene. Sicché, lui faceva fatica, in più la sua moto si ribellò e non le andava bene niente: se la teneva accesa bolliva l’acqua, se la spegneva gli moriva la batteria, ma qua eravamo sempre fermi per aiutare e spingere quelli con le moto grosse e le gomme a mescola dura, per cui ogni volta doveva scegliere se spegnerla o lasciarla accesa. I due con le Africa Twin (Baypiss e mio fratello) erano lentissimi ma se la cavavano, mentre Tommaso e i sanremesi si piantavano e cadevano spesso. Sicché, fin da subito, all’interno del gruppo si formarono diversi umori. A Carlo di Roma questo ritmo non piaceva per niente, lui non aveva problemi e non gli andava di aspettare i più lenti: la persona tanto simpatica a bocce ferme si stava rivelando completamente diversa, una volta in sella. È un classico rischio del motociclismo: “La pizzeria non è la strada”, ma ci casco sempre. Del resto, se oggi ho un meraviglioso rapporto di amicizia con i vari Danilka, Baypiss, Nagini ecc. è perché, nei loro casi, rischiare ha avuto senso. Tommaso era sempre fermo o sempre per terra, ma si divertiva un mondo. I sanremesi, invece, non si divertivano per niente, erano stanchi e invocavano il fanculing dello sterrato a favore dell’asfalto. Iniziava a formarsi un filo di tensione, ma avevo la coscienza asciutta: questo percorso lo avevano proposto loro!
SADDY HIGHWAY
Dopo due ore e mezza di spinte, impiantamenti e cadute avevamo percorso 12 km su 200. Era senza senso. Prendemmo l’autostrada, ma fu uno stillicidio. Si mise a diluviare senza sosta, acqua tipo cascata. La mia moto si fermò come morta e capimmo che la colpa era dell’abbigliamento elettrico, che sovraccaricava l’impianto della moto. Usavo quella moto e il giubbotto Klan dal 2002, senza mai avere problemi da parte dell'impianto elettrico, ma doveva essere successo qualcosa. Mi toccò ripartire senza elettrico, indossare la giacca in piumino superstite e dare inizio alla sessione di brividini che diventano brividoni. Anche la moto di Nagini si fermò, in quel caso perché la pioggia stava trovando breccia nell’impianto elettrico. Ma poi ripartì. Insomma, per fare 225 km di autostrada impiegammo qualcosa come 5 ore. Per il Carlo di Roma non fu un problema: alle 15, come entrammo in autostrada, si mise a cannone e se la fece tutta fino a Carsoli in un paio d’orette, senza mai girarsi indietro, per poi aspettarci dentro una creperie. Ma non disse nulla a nessuno ed io, che lo pensavo dietro e non davanti, mi angosciai perché pensai che avesse avuto un problema. Quando ipotizzammo che invece, magari, poteva essere davanti e in fuga, i sanremesi, che non ne potevano più delle mie panne elettriche, si lanciarono al suo inseguimento.
Ad un certo punto, quello che avrebbe dovuto essere un gruppo compatto di dieci moto si era spaccato in cinque. Carlo di Roma era in fuga, tutto solo. Emanuele Pasculli Avetta, partito da Roma, gli era alle calcagna, ma non lo sapeva. I due sanremesi gli erano dietro e, quando a Carsoli lo raggiunsero, andarono in confusione: chi era questo tizio con una Honda XR400R? Il quarto gruppo era composto da me e Danilka: appena la mia moto si era rimessa in moto, gli altri mi avevano detto di partire subito senza fermarmi, per ricaricare la batteria, “che tanto ti raggiungiamo”. Ma il Nagio era rimasto in panne, per ripartire dopo parecchio, per cui quandi gli ultimi quattro ci raggiunsero a Carsoli erano le 20 passate.
UN'ALTRA CIACCIA SHITUATION
A Carsoli siamo arrivati bagnati, chi tanto e chi poco. Era buio, erano le 20, avevamo fame e freddo, pioveva fortissimo e la degna fine della giornata sarebbe stata un bell’albergo con trattoria, caminetto e arrosticini d'abbacchio. Invece no, il nostro scopo era salire a Camposecco, che era alto 1.300 m sul mare, per piantarci le tende. Alla sola idea, mi veniva da vomitare.
A Camerata Nuova, quota 800 m, iniziavano i 5 km di salita sterrata al 10% per l'altopiano. Erano innevati: neve abbastanza alta, resa spugnosa dalla pioggia. Dovemmo catenarci, con le moto dentro un solco pieno di acqua piovana che scorreva come se fosse stata un torrente regolarmente omologato. Danilka, fino a quel momento, aveva catenato solo la Ténéré; la XT500 montava lo stesso modello e la stessa misura di pneumatico, ma la catena si rivelò troppo piccola. Pazzesco! Probabilmente la variabile impazzita era la larghezza del cerchio. Fatto sta che lui, senza catene, saliva come noi... La neve era una schifezza. Era alta, ma ci si affondava poco e ci si scivolava molto, nonostante le catene. Dopo appena 1,5 km, però, lo strato aumentò e le moto iniziarono a piantarsi. In queste situazioni, il tempo vola. C'era chi si piantava e chi cadeva. Il tutto sotto una pioggia spaventosa, che ci entrava dappertutto. Il gruppo si spezzò in tre. Il solito Carlo di Roma aveva tentato la solita fuga solitaria, ma s'era piantato a quota 1.100 e gli era toccato tornare verso valle, a chiedere aiuto a noi, cosa che avrebbe evitato più che volentieri, perché era chiaramente in rotta e voglioso di starsene da solo. Il grosso del gruppo stava nel mezzo e si stava concentrando su un tratto spugnoso a quota 1.070, indeciso sul da farsi. Anzi, no, eravamo decisi: tornare indietro. I due di Sanremo, invece, erano in fondo. Non usavano catene bastarde come le nostre, ma fascette sperimentali che funzionavano piuttosto male. Inoltre, uno dei due cadendo s'era fatto male al ginocchio. Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso: il Carlo di Sanremo perse la pazienza, ci fanculizzò, girò la moto e, insieme a Walter, tornò a Carsoli a cercare un albergo. Ma io lo capisco. Lui è un ultrasessantenne con un'esperienza mostruosa, che percorre oltre 40.000 km all'anno in moto. Ha viaggiato ovunque, sempre ai suoi ritmi, che sono efficienti. Si è trovato con questo gruppo di gente che non conosceva, lento a prepararsi, sfiancante nelle sue soste, male organizzato. E mordeva il freno. Quando s'è ritrovato a Carsoli sotto la pioggia apocalittica e ha visto che gli stavamo imponendo una salita senza senso, sulla neve alta, di notte, già da bagnati, ha perso definitivamente la pazienza. Nei giorni successivi, tornato a casa, ci ha scritto una lunga e-mail dove elencava per filo e per segno tutte le nostre pecche. Anche le panne elettriche del DR-Z e della 690 facevano parte del pacchetto. Ne riconosco parecchie, ma su una cosa dissento: che ci fossimo andati a cercare le Ciaccia Shituation col lanternino. Quello è il rovescio della medaglia del meraviglioso mondo del mototurismo. Faccio questo lavoro dal 1992 e so quanto siano ingannatori i miei servizi. Mi vengono pubblicate foto di paesaggi spettacolari, con le tendine in cima a qualche posto da sogno e c'è sempre qualcuno che, su internet, commenta con un "E ti pagano pure". Certo che mi pagano! Perché è un lavoro, per quanto sia il più bello del mondo. Il rovescio della medaglia di una foto che fa sognare è rappresentato da tutto ciò che rende i viaggi in moto stressanti: la pioggia, il freddo, il caldo, la moto che si rompe, i troppi km da bagnato, la sella stretta, il buio, la notte, il sonno. Per questo io poco sopra ho scritto che mi veniva da vomitare, all'idea di salire a Camposecco con quel tempo. Il cuore non voleva, la testa sì, perché so sempre che ne vale la pena e se al momento non ne ho voglia è bene comunque insistere, altrimenti ciao, rovescio figo della medaglia.
Non so quante volte m'è capitato di venire accompagnato da gente che prima mi dice "E ti pagano pure", poi si scoccia e non vuole tornare più. Pensava che passassi il tempo a guidare spensierato sotto il sole, ma ha scoperto che c’è anche dell’altro e che non è piacevole. Sicché, quella stupida salita sotto la pioggia era il rovescio della medaglia della speranza di ritrovarsi, il giorno dopo, con le tendine in mezzo al Camposecco, uno dei posti più belli d'Italia, in mezzo a un metro di neve fresca e sotto un cielo blu cobalto. Ma ci andò male. Perdemmo la sfida. Non riuscimmo ad arrivarci, a Camposecco. Alle 23.30 eravamo di nuovo a Camerata Nuova. Tra andata e ritorno, tra cadute e piantate, tra incatenamento e scatenamento, avevamo buttato via tre ore e mezza per fare quattro chilometri assolutamente inutili e ci eravamo bagnati ancora di più perché, quando sudi dentro un completo in Gore-Tex, attiri l'acqua al tuo interno. Non lo dico su basi scientifiche, è la conclusione alla quale sono arrivato dopo che, ogni volta che sudo sotto la pioggia, la giacca si mette a passare l'acqua alla grande. Posso capire, perciò, perché il Carlo di Sanremo avesse sclerato. Mentre non capirò mai il Carlo di Roma, che è passato da simpaticissimo ad asociale nel giro di un rettilineo fangoso. Eppure lui era abituato a giri randagi con tanta gente, a quel che mi diceva. A quel punto, eravamo diventati un gruppo di 7 persone, più un satellite che stava in disparte e non parlava con nessuno. Va però detto che c'era questo zoccolo durissimo di pirla a cui la salita sotto la pioggia, per quanto senza senso e faticosa, aveva divertito: mio fratello, Danilka, Baypiss, Nagini, Pasculli, Tommaso ed io. Quest'ultimo non era abituato a tale genere di gite e in seguito ha raccontato che "Ero allo stremo, era dal mattino che mi prendevo la pioggia e che cercavo di non fare cadere la moto, ma ero esaltato". Per cui non ci sono buoni o cattivi, non c'è chi ha ragione e chi ha torto, c'è solo chi si diverte a fare queste cose e chi no. L'importante è stare bene separati!
CAMPAEGLI, DA LUOGO BUCOLICO AD HORROR SET
Ma cosa fare adesso? Non volevamo stare sotto la pioggia con le tende. L'unica era cercare di salire ad alta quota, sperando che nevicasse. Allora andammo a Campaegli, con l'idea di tornare a Campobuffone, come nel 2011. Ed avevamo ragione: quel posto era a 1.500 m e lassù nevicava. Ma tanto, tantissimo. La strada per arrivarci era innevata e insidiosa. Il paese era disabitato e ricoperto da tonnellate di neve. In giro c'erano solo cani randagi di taglia piccola. Arrivammo e sembrava il set di un film sul paranormale. Muri di neve, case chiuse, lampioni dalla luce inquietante e latrati di cani. Pensai a quelli di Muggiano (MI), che divoravano i passanti. Ma questi erano piccoli e innocui. Andare a Campobuffone era impossibile: la strada era ricoperta da un metro di neve.
Ci mettemmo parecchio a trovare un posto, a montare le tende, a grigliare la carne. Cenammo tra le due e le tre di notte. Ormai, il Finten stava diventando questa cosa qua: grigliate nel cuore della notte. Bello e divertente, ma garanzia di partenze ritardatissime il giorno dopo. Io provavo l’ennesima nuova tenda, una Westravel K2 a ombrello: costava meno di 100 euro ed era rifinita semplicemente, però si montava in pochi secondi grazie all’apertura ad ombrello, era spaziosa e teneva molto caldo.
Ovviamente a cenare eravamo in sette. Carlo di Roma, senza salutare nessuno e senza montare la tenda, era andato a letto senza cena, dentro un capanno di legno.
IL MILANESE
Il mattino dopo ci svegliammo sotto una nevicata spaventosa, divina, bellissima, spinta da un vento che faceva un rumore da biplano. La strada era diventata una crosta di ghiaccio vivo. Smontammo le tende, caricammo le moto e le catenammo ma, sotto i 1.300 m, la neve diventò pioggia, da impazzire. Arrivammo a Carsoli ed eravamo già bagnati. Entrammo in un bar e, messi in carica i telefoni, scoprimmo che i sanremesi erano già partiti per i Sibillini. E furono gli unici ad arrivarci! Dentro il bar ci fu un crollo della motivazione. Pasculli, Tommaso e Carlo di Roma annunciarono che sarebbero tornati a casa seduta stante. Rimase lo zoccolo durissimo dei Coglioni d'Inverno, ovvero Baypiss, mio fratello, Danilka, Nagio ed io. Ma rimanemmo intrappolati a Carsoli: ancora una volta, il mio DR-Z e il 690 di Nagio facevano le bizze. La mia funzionava, ma solo al minimo e solo con l'aria tirata. Come davo gas, si spegneva. Il 690 invece aveva un'erogazione isterica: spento, acceso ma irregolare, spento, acceso ma fiacco, spento, spento, spento. Era un sabato mattina ad Arsoli, in giro non c'era nessuno, ficcammo le moto sotto la pensilina di una fermata d'autobus e chiedemmo in un bar se c'era un meccanico. Nel bar erano gentili e chiamarono un tipo scontroso detto "Il Milanese", che girava con una specie di pellicciotto di lana, veniva lui dai clienti e non portava attrezzi. Un mito. Mise le mani sulla KTM, trattandola per tutto il tempo come una moto a carburatore, mentre della mia mi chiese se partiva "all'americana" (a spinta?). Passò la giornata a smontare il carburatore della 690 (nonostante il Nagio gli ripetesse di continuo che era a iniezione), finché non ripartì. Quanto alla mia, disse che c'era una gocciolina d'acqua dentro un getto, e che l'unico modo di curarla era di avviarla con l'aria tirata e di dare gas levando l'aria, fino a farle raggiungere i 58.000 giri al minuto, il tutto dentro la pensilina dell'autobus che, nel frattempo, s'era riempita di ragazzi e persone anziane. Nessuno protestava per quell'intrusione, a parte il Milanese, che li cacciava sotto la pioggia: "Aoh, io devo lavora'!".
La giornata finì in maniera incresciosa. Prendemmo due stanze in una trattoria fuori Carsoli, un posto veramente molto scozzese, perché sorgeva in riva a un fiume e nel menù c'erano le trote pescate dal proprietario. Mettemmo tutti i vestiti ad asciugare e ci presentammo a cena in calzamaglia, una roba oscena; e secondo me c'era pure una sfacciata che ci guardava il pacco. Ovviamente non posso negare che la doccia calda, il letto col piumone e la cena in trattoria mi piacquero moltissimo. A cena si discusse sulla debacle delle due moto moderne del gruppo, mentre le due Africa Twin e la XT500 giravano come orologi.
Nel frattempo, Tommaso e Carlo di Roma viaggiavano verso nord, flagellati dalla pioggia e, ovviamente, ognuno per sé. Carlo valicò gli Appennini sotto la neve, Tommaso si fermò stremato a dormire a Firenze e solo l'indomani ripartì per il Mugello.
I SANTI DI BOLOGNA
La domenica pioveva ancora. Alla tv dell'albergo annunciavano nevicate in Pianura Padana e sui valichi appenninici. Allora, mentre mio fratello partiva tutto solo per Empoli, noi puntammo verso il mare Adriatico, perché sembrava che in Abruzzo nevicasse meno che in Emilia. Dovendo valicare gli Appennini, insomma, tanto valeva farlo subito. Erano 710 km fino a casa mia (Cisliano) e 840 fino a casa di Nagio (Domodossola), quindi un tappone notevole da fare con delle monocilindriche tassellate. Nevicò debolmente fino al valico di Tornimparte, poi basta. Come uscimmo dal tunnel del Gran Sasso, fummo investiti da una folata di aria calda. Era primavera, sulla costa adriatica. C'era il sole, faceva caldo, era bello arrivarci dopo tutto quello stare in ammollo. A Pesaro salutammo Danilka, quindi arrivammo a Rimini e fu come entrare in un freezer. Non c'erano tunnel di Cartoonia o armadi di Narnia tra Rimini e Forlì, ma in quel lasso di spazio la temperatura si abbassò di dieci gradi. Ci ritrovammo a guidare in mezzo alla steppa innevata della Padania, come in Siberia. Dio, che bello! Avremmo dovuto fare il Treffen a Faenza. E quasi ci riuscimmo, perché a Faenza l'Africa Twin di Baypiss ammutolì per colpa della morte del regolatore di tensione. "Poco male, ne ho sempre uno di scorta" disse Baypiss sereno, frugando nei bagagli. Ma il regolatore non c'era. Tra le varie ipotesi per uscirne (tipo lasciare la moto in autogrill e tornare in due sul DR-Z con tutti i bagagli!) vinse quella di chiedere aiuto a Francesco Catanese, il rallysta specializzato in bicilindriche che testa le maxienduro su FUORIstrada. Si innescò una cordata di persone disponibili e generose, come nei più bei racconti a sfondo motociclistico: Catanese venne a prendere l'Africa Twin con auto e carrello, Giampaolo Mucci mise a disposizione il suo capanno e il regolatore di tensione preso, se ricordo bene, da una Yamaha R1 e Paolo Govoni montò il regolatore sull'Africa Twin. Mucci, noto come GP Mucci, è l'autore delle più belle Africa Twin preparate per il fuoristrada serio. Le alleggerisce, alza le sospensioni, sposta il serbatoio e le dota di sovrastrutture in alluminio simili a onde del mare. Govoni, invece, è un elettrauto che lavora sui tram e che ha dotato la sua Africa Twin di una impressionante serie di diavolerie elettroniche (oltre a un paio di sci!). Catanese si rivelò rallysta fino al midollo: lui è di Bologna e io gli dissi una cosa molto semplice, "Siamo nel primo autogrill dopo l'uscita di Faenza dell'autostrada, in direzione Bologna". Ma lui non ne voleva sapere: o gli davamo il punto Gps, o non si sarebbe mosso.
A mezzanotte ringraziammo quelle bravissime persone e proseguimmo il nostro viaggio verso nord. Da Bologna a Modena andammo per stradine di campagna, con 4 gradi sotto lo zero e 30 cm di neve ai bordi. Sembrava veramente la steppa russa. A Milano nevicava e ci arrivammo alle tre della mattina. Dove abitavo io, a Cisliano, le strade erano pulite; dove abitava Baypiss, a Seregno, erano tutte innevate. Il povero Nagio si fermò a dormire da me. La mattina dopo gli proposi di venire in redazione facendo le sterrate innevate, ma si mise a piovere, la neve iniziò a sciogliersi e la sua moto ammutolì di nuovo. Panne elettrica. Nooooo! Di nuovo! Come la moto ripartì, lui non volle sapere altro, mi salutò, si buttò in autostrada e raggiunse Domodossola senza soste, col terrore di rimanere a piedi in ogni dove. Fu a quel punto che decise che avrebbe venduto la 690 e che avrebbe fatto tutto con l'altra moto, una KTM 450 EXC da agonismo puro. Rapporti allungati, serbatoio da 15 litri, portapacchi, coprisella in neoprene, pila frontale potente sul casco. Da allora, è felice. Con quella moto ha già fatto lunghi giri, partendo direttamente da Domodossola, come la Hardalpitour 2013, il Memorial Della Santa 2013, un giro in Sicilia (con imbarco a Genova), l'Elefantentreffen 2014... e pure il Fintentreffen 2014. Alla fine, il bilancio di questo Finten sembrò non poter essere che disastroso: troppo fango, troppa pioggia, moto in panne, gente scocciata, ritorni nel cuore della notte. Dopo avere sentito i racconti, chi era stato a casa disse: "Ho fatto bene a restare a casa". E io penso: avrei fatto meglio a restare a casa? No. Anche un giro disastroso come questo merita di essere vissuto.
FINTENTREFFEN 2014
Non posso parlarne in questa sede! Devo prima produrre l'articolo cartaceo per Motociclismo FUORIstrada di aprile. Dirò solo che si è svolto sulle Alpi Occidentali: partenza dal Po, quindi Cuneo, superamento dei valichi Maddalena, Vars, Monginevro e Sestriere, una notte dentro una palafitta di legno, una dentro una casa diroccata e una sopra un ponte. Ancora a febbraio, perché Danilka e Nagio sono andati all'Elefantentreffen. Tra il Po e Cuneo abbiamo trovato fangaie ancora peggiori di quelle del 2013, abbiamo avuto un'altra panne elettrica (una vecchia BMW, questa volta), siamo saliti sulla Maddalena sotto la neve e poi ci siamo goduti due giornate da urlo, con cielo blu e neve tutto intorno. Nessuna litigata, questa volta. Ma è apparso sempre più chiaro che siamo dei cazzoni, che grigliano carne fino alle quattro e mezza della mattina e poi la mattina dopo sono incapaci di partire presto, perdendosi svariate ore di luce per viaggiare. Certe volte, più che Coglioni, mi sembra di essere dei coglioni.