Ho partecipato a dieci Elefantentreffen e a quattro Fintentreffen, eppure non so spiegare in maniera razionale perché i viaggi invernali mi piacciano così tanto. Non sono neanche tra quelli che pensano che i veri motociclisti siano quelli che vanno all'Elefanten. Certo, significa che la passione è così tanta da essere disposti a viaggiare per ore con temperature spaventose, su fondi infidi. Ma, poiché il gusto della moto è godersi l'aria tiepida in faccia e piegare in curva, non starei tanto a disquisire su 'sta storia del vero motociclista. Resta il fatto che non so spiegare il perché di questa passione e vedo che anche gli altri malati di freddo non sono in grado di farsi capire dai detrattori. Sempre che sia così importante, farsi capire (Mario ci prova anche con le foto della gallery: sono tante, ma imperdibili, ndr).
LE ORIGINI
M'è venuto un dubbio: che qualche lettore non sappia di cosa io stia parlando. La cosa risale al 1956, quando un gruppo di possessori di sidecar Zündapp KS 601, soprannominati Elefanten, vollero dare prova dell'affidabilità dei loro mezzi (e di loro stessi) attraversando tutta la Germania in pieno inverno, con neve e temperature bastarde, per ritrovarsi al circuito della Solitude presso Stoccarda. L'idea piacque talmente che, nel giro di pochi anni, diventò uno dei più famosi raduni di moto e sidecar del mondo. Il concetto era di ritrovarsi in un posto freddissimo, dopo un viaggio estenuante, per fraternizzare con tutti quelli che ce l'avevano fatta. E, una volta là, si doveva dormire in tenda. L'epopea d'oro del raduno è stata negli anni 70 e 80, quando si teneva a Salisburgo, nello storico circuito del Motomondiale. Si arrivarono a passare le 20.000 presenze, troppe per un raduno così vicino alla città. Così, dalla fine degli anni 80, la sede venne spostata in quella che viene chiamata la Fossa o la Buca di Loh, una conca innevata immersa tra gli abeti del Parco Nazionale della Baviera, a pochi km dalla Repubblica Ceca. Da allora, le presenze oscillano tra le 3.000 e le 7.000. Più il tempo è cattivo, meno gente riesce ad arrivare e più il raduno ha successo, al contrario del resto dei raduni del mondo.
1981
Il 1981 è l'anno in cui io, quindicenne, come ciclomotore sogno il Testi Militar e scopro, leggendo Motociclismo, che esiste questo raduno. Il servizio, firmato Marco Valmori, non dice molto, sono poche pagine, forse due, ma fa capire abbastanza. Io vado in fibrillazione. Sono giovane, ho solo un ciclomotore monomarcia, sogno già di correre la Parigi-Dakar e l'inverno è la mia stagione preferita, ma non pensavo che esistessero dei raduni simili. Nella mia mente ingenua, non penso "è un'idiozia", ma "voglio farlo!".
1987
Primo numero della rivista Mototurismo, con un servizio storico: è ancora l'Elefantentreffen visto da Marco Valmori, ma questa volta occupa molte pagine ed è concentrato più sul viaggio che sul raduno. All'epoca, Marco aveva messo in piedi una specie di viaggio organizzato, dove dava appuntamento ai partecipanti in un albergo di Chiavenna (SO), mi pare al mercoledì sera e invitava soprattutto gente coi cinquantini a viaggiare con lui. In quel 1987, Marco si presentò a bordo di una Jawa 350 con sidecar e, tra i partecipanti, c'erano un siciliano partito una settimana prima in sella a un Ciao, due col Testi Militar muniti di sci, due con l'Aprilia Tuareg 50 (cinquantino di sogno dell'epoca)... Affrontarono il Maloja con la neve, arrivarono a Salisburgo e tornarono via Felbertauerntunnel, Passo Falzarego e Passo Pordoi. Lessi quell'articolo una cinquantina di volte, ogni volta sognando anche io di andare al raduno valicando passi innevati. Ma non ci andai subito. Per svariate ragioni, sono andato al mio primo Elefanten solamente nel 1998, a 31 anni. Poi ci sono andato per dieci volte, quasi ogni anno, fino al 2009. E non so quante volte ho dovuto rispondere a domande tipo: "Ma cosa ci vai a fare" o "Per quanto tempo intendi andarci ancora", rivolte da denigratori che, non capendo che gusto ci fosse, davano per scontato che nessuno avrebbe potuto trovarci un fascino.
UN RADUNO CHE DIVIDE LE FOLLE
Verso l'Elefanten viene provato ogni tipo di sentimento ma, sostanzialmente, a grandi linee sono quattro gli atteggiamenti-tipo.
1. Il malato è colui che ci va sempre, che adora l'inverno e che considera questo raduno uno dei massimi eventi dell'anno. Ci va da così tanto che conosce tutti i veterani e, ogni anno, fa bisboccia con loro. Anche io sono un veterano ma il mio punto di vista, che ha sempre privilegiato il viaggio al raduno, non ha permesso di farmi una compagnia di Elefanti da salutare tutti gli anni.
2. C'è chi non è minimamente attratto da questo raduno, ma è molto sensibile alle tacche sul fucile che ogni "vero" motociclista dovrebbe ostentare. E, per molti, l'Elefantentreffen è una tacca di assoluto prestigio. Queste persone, in genere, tendono a viaggiare solo in autostrada, a dormire in albergo, ad andarci una sola volta nella vita sperando nel bel tempo... e a non divertirsi. Ma il fenomeno arriva ad eccessi folli, tipo andare in loco con la moto dentro il furgone, per poi far credere di avere compiuto in sella l'intero percorso.
3. Il terzo gruppo comprende coloro che, a cuor sereno, non sono attratti da un raduno con freddo polare e pernottamento in tenda, ma ammirano chi ci va e trovano divertente sentire i racconti dei reduci.
4. Il quarto gruppo comprende i denigratori, ovvero coloro che provano un sincero fastidio verso questo raduno e sono profondamente irritati da coloro che ci vanno. Si tratta di un sentimento che ho riscontrato spesso, per vari motivi. C'è chi, sotto sotto, ci vorrebbe andare, ma non osa e traveste la sua frustrazione in odio per il raduno e per chi ci va. C'è chi è sinceramente irritato dal can can che si sente intorno a questa impresa demenziale. C'è chi prova un forte nervoso verso i partecipanti, perché rischiano la vita (scivolare sul ghiaccio con un'auto che ti segue è mortalmente pericoloso e il tutto in nome di cosa? Di un raduno di ubriaconi?).
Mi sono trovato spesso ad avere a che fare con persone che, con sorrisini di compatimento, mi chiedevano, stupiti, perché andassi ancora all'Elefanten, o per quanto intendevo andarci ancora. Rispondevo sempre così: "Ci andrò finché mi divertirò". Per le prime 9 volte, mi sono divertito perché, ogni volta, era una storia diversa. Ma la decima l'ho trovata noiosa ed ho capito che era il caso di cambiare format, ecco perché sono passato al Fintentreffen. Di seguito, proverò a raccontare, cercando di non esagerare, perché per 9 volte lo ho trovato sempre diverso e divertente.
1998, IL FASCINO DELLA NOVITÁ
Inutile dirlo, la prima volta – a fascino - batte tutte le altre. Già dalla fine degli anni 80 mi ero messo seriamente a pensare come arrivarci, ma ero giovane e spiantato. A un certo punto mi trovai nella condizione di dire "Quest'anno farò il Treffen!", ma poi succedeva sempre qualcosa. Nel 1998, finalmente, le tessere andarono al posto giusto. Ero appena tornato dalla Scozia (ne ho parlato due settimane fa) e mi ero trovato benissimo con due dei partecipanti, ovvero Gugu e Checchino. Anche loro non vedevano l'ora di fare l'Elefanten. Ci si aggregò una quarta persona, che chiamavamo Krastah perché usava sempre quella parola. Era il più interessante, tra noi quattro, per via delle sue motivazioni. Era un artista, che tentava di vivere facendo lo scultore. Nel 1995, a soli 18 anni, era andato all'Elefanten. Aveva caricato un amico sulla sua Honda CB350 Four, era arrivato, era tornato ed era sconvolto.
ELEFANTENTREFFEN COME ESPRESSIONE ARTISTICA
La sua idea di Elefanten travalicava il mero concetto di "raduno motociclistico", perché vi vedeva una validità artistica. Quando parlava, lui si infoiava sempre e non si capiva niente di quello che diceva ma, a grandi linee, si intuiva che lui, in questo raduno, vedeva concetti che andavano dal mito del viaggio della Beat Generation a cose post atomiche tipo gli spettacoli della Fura del Baus o dei Mutoid Waste Company. L'Elefanten raccoglieva l'eredità dei grandi raduni americani, quelli ispirati dal “culto dell'andare” in stile Keourac, ma rivisitandolo con moto molto più "craste" e versatili, adatte ad andare sulla neve, sulla sabbia e sulla terra, perché il vero viaggio randagio, senza confine, non doveva limitarsi al solo asfalto. Nel suo delirio, che però a me piaceva molto, al posto dei chopper, dei custom e dei cruiser usati dagli americani ci volevano le enduro e l'Africa era la Terra Promessa. Africa ed Elefantentreffen andavano a stretto braccetto, come filosofia del viaggio, ove contava avanzare a ogni costo, viaggiando su terreni impervi, per poi dormire in tenda, perché ogni luogo andava bene per fermarsi e non si doveva avere l'assillo della prenotazione. Nel 1995, al raduno, lui si fece un'idea molto chiara su come dovesse essere una moto crasta e ce lo dimostrò nell'estate del 1997: aveva rimpiazzato la sua Honda CB350 Four con una Yamaha Ténéré 600 seconda serie, quella con l'avviamento elettrico e il filtro in zona serbatoio. La sua ricetta era questa: via l'avviamento elettrico; via le fiancatine, sostituite da piastre d'acciaio prelevate da un vecchio tram; serbatoio e parafanghi pitturati di rosa; via la sella, rimpiazzata da una spessissima pelliccia di pecora; via il faro e la mascherina, al loro posto due faretti poliellissoidali; e vennero montati due telaietti per le borse laterali. Quando vedemmo la sua moto, ci venne da vomitare, ma io restavo affascinato dal personaggio e dalle sue idee sul raduno. Al momento di partire, però, lui si presentò con una Kawasaki KLX650R molto più sobria.
ABBIGLIAMENTO ELETTRICO
Anche Checchino aveva cambiato moto. Si era sbarazzato della sua Kawasaki KLR600 con crepa ad anello nel carter (che aveva retto per gli oltre 7.000 km del viaggio) e si era comprato una Yamaha TT600S nuova. Aveva appena iniziato a lavorare presso il cugino, fondatore della Tucano Urbano, così ci chiese di fare da cavie per un nuovo prodotto che stavano sviluppando. Si trattava di una specie di canottiera di plastica che, collegata alla batteria, scaldava il pilota grazie a resistenze elettriche. Ma gli impianti elettrici della sua moto e di quella di Krastah non andavano bene, per cui potevamo usare quel coso solo io e Gugu. Trovavo assurdo andare in giro incatenato alla moto con un cavo elettrico e dissi di no, mentre Gugu annuì con entusiasmo. Lui usava la stessa Yamaha XT600 che aveva grippato prima di partire per la Scozia. 10.000 km dopo, il motore era sempre grippato e divorava l'olio, ma lui se ne fregava. E io avevo la mia solita, fedele Suzuki DR350S.
ABBIGLIAMENTO IN GENERALE
Per la maggior parte dei partecipanti, l'Elefantentreffen rappresenta l'unica esperienza di viaggio invernale. Per cui, quando lo affrontano la prima volta, non hanno chiarissime le idee sul come vestirsi. Io, per il mio primo Elefante, ero assai preoccupato, a causa di un trauma subito anni prima. La mia prima esperienza invernale in moto fu il grande inverno del 1985, uno dei più freddi del secolo scorso. Feci un giro nelle campagne di Milano con meno tredici e non presi troppo freddo. Pensai che fosse perché avevo un buon abbigliamento, invece era solo perché avevo coperto una distanza di appena 18 km. Ma questo mi fece pensare che, se resistevo a 18 km di freddo, ero vaccinato anche nel caso i km fossero stati molti di più. Nel novembre del 1985, perciò, affrontai il Passo del Bernina con lo stesso abbigliamento: una t-shirt in cotone, una felpa in cotone, un golf in cotone e una giacca in piuma d'oca. Resistetti a lungo. Sul passo c'erano -7 °C, ma il fondo sporco di neve constringeva a guidare lentamente e a concentrarsi sulla guida, cosa che aiutava a non sentire freddo. Le cose peggiorarono sui veloci rettilinei dell'Engadina, che percorsi con un grado sotto lo zero, sentendo un freddo intenso. Lo giuro, a 20 anni non avevo neanche lontanamente intuito che il problema della moto non è il freddo percepito all'istante, ma quello che accumuli con ore ed ore di guida, che ti entra nelle ossa. All'epoca ero talmente spiantato che non pranzavo e non mi fermavo mai nei bar, per cui stavo tutto il giorno esposto al freddo. Nel momento in cui il freddo mi diede la sensazione di essere entrato nelle ossa, non mi diede più tregua. Sarebbe bastato entrare in un bar, ai primi brividi, invece io tirai dritto fino a casa. Ricordo che costeggiavo il lago di Como con +7° e avevo la sensazione che fossero -40°. Arrivato a Milano, feci una doccia bollente e mi misi sotto le coperte, ma per tutta la notte tremai dal freddo. In seguito ho fatto altri giri invernali sulle Alpi, ma coprendomi come si deve; per questo, alla vigilia dell'Elefantentreffen, ero preoccupato, perché si trattava di affrontare una distanza di molto superiore a quelle dei giri sulle Alpi. La nostra intenzione era partire il giovedì sera, dormire in Svizzera sotto il Passo del Maloja e, il giorno dopo, coprire i 500 km che ci separavano da Loh, cioè dal raduno. 500 km sotto lo zero, quanto freddo avrei accumulato? E così andai a Brescia, dove si trovava il famoso "Cestone di Canella": era il negozio di un ex dakariano che aveva un grande cesto dove gettava, alla rinfusa, i capi fortemente scontati. Lì trovai un completo Dainese invernale di taglia enorme, che veniva svenduto perché era troppo grosso. Lo presi così grosso per poterlo imbottire con strati e sottostrati: pile, piumini d'oca... Il grosso, immenso, enorme problema era che a pelle indossavo la solita t-shirt di cotone che, una volta sudata, non si asciugava più. La scena era sempre quella: mi mettevo tutti gli strati dentro casa, per accumulare calore; iniziavo quindi a sudare copiosamente. Quindi, uscivo all'aperto e, per fare partire la moto a pedale, sudavo ancora di più. Una volta che la moto partiva, io ero bagnato fradicio e la maglietta sarebbe restata bagnata per tutta la durata del viaggio. Idem per i piedi, perché usavo degli stivali di gomma imbottiti di ovatta che avevo pagato 30.000 lire alla Fiera di Senigallia. Erano caldi, ma non traspiravano. Avevo i piedi sempre bagnati di sudore.
ABBIGLIAMENTO DA CRUCCO
Finalmente, quel giovedì sera partimmo. Checchino, Gugu ed io usavamo abbigliamento da mototurismo con tanti strati e le coperte per le gambe, ma Krastah inorridì, vedendoci. Disse che l'Elefanten esigeva rispetto, che non ci si poteva vestire come scooteristi sfigati. Bisognava andare con le moto nude, senza coperte da mezzi uomini e con capi di pelle. "Quando i crucchi vi vedranno così conciati – sentenziò – vi cacceranno fuori". Lui era l'esperto, il veterano, lui era già stato nella Fossa, ma lo mandammo a cacare. Era coperto molto meno di noi. Aveva anche gli stivali da cross, che non sono il massimo del caldo.
GUIDARE DENTRO UN FREEZER
All'inizio, le temperature non ci scandalizzarono. +5° a Milano, 0° in Brianza, +1° sul lago di Como, -3° a Chiavenna e -7° a Casaccia, in Val Bregaglia, ai piedi del Passo del Maloja. Dormimmo all'Hotel Stampa, che aveva camerate a poco prezzo e cucinava pizzoccheri squisiti.
Ma il giorno dopo, quando partimmo alle sei della mattina, ci trovammo ad affrontare un freddo davvero barbino. -16° sul Maloja, -18° a Silvaplana e -20° a St. Moritz. C'era una nebbia molto fitta, che sembrava solida. Scoprimmo che l'unico termometro che ci eravamo portati aveva il fondoscala a -20°, ma un camionista ci disse che il suo termometro segnava -24°. Per 30 km, il nostro termometro non si schiodò mai dal fondoscala. Dopo Samedan ci sono dei rettilinei molto lunghi, in pianura, che io sfruttai per andare il più veloce possibile, in modo da vedere gli effetti del freddo. Si sa che il vento della corsa porta a una percezione del freddo maggiore di quella indicata dal termometro. Raggiunsi i 120 km/h. Andare a 120 orari con -24 °C è uno spettacolo! La barba diventa un blocco di ghiaccio che stira i tessuti del sottocasco. La visiera, nonostante sia dotata dell'efficacissima visiera antiappannamento adesiva della Fog City, si appanna fino a ghiacciare e devi tenerla aperta. Allora i tuoi occhi lacrimano, per cui si formano stalattiti e stalagimiti di ghiaccio che tengono a unirsi e a mettere le tue pupille dietro sbarre da prigione. Il comando del gas e lo sterzo diventano durissimi, perché gela il grasso usato per lubrificare il cavo e i cuscinetti. Il motore non allunga per niente, sembra quasi avere un rumore sordo, come sott'acqua. Le mani, per quanto si usino guanti invernali, sottoguanti e moffole al manubrio imbottite di pelo, soffrono tantissimo, tanto che inizi a perdere sensibilità. Tutto il corpo sente freddo, ma avanzi senza problemi perché la situazione ti esalta. Se provassi le stesse cose e leggessi sul termometro un banale -2°, andrei in panico e capirei che sto crepando di freddo. Ma, a -24°, psicologicamente sono fortissimo e accetto qualsiasi sofferenza da freddo, perché mi esalta l'idea di andare avanti lo stesso. Anche Gugu era psicologicamente fortissimo, perché aveva la canottiera elettrica della Tucano Urbano e non sentiva freddo. Iniziai a pentirmi di non avere voluto provare quel coso.
LA RIVOLTA DEGLI SCHIAVI
Purtroppo, a Zernez l'esaltazione finì, perché se già noi tre "normali" stavamo soffrendo, Krastah era messo molto peggio. Ci urlò incazzato che faceva troppo freddo e ci ordinò di rinchiuderci dentro il bar di un albergo, in attesa della primavera. Noi lo insultammo: ok, l'Elefanten richiede rispetto e ti ordina di vestirti da pagliaccio con pelli e pellicce, ma se poi uno crepa dal freddo ed è costretto a rintanarsi in un bar chi è che sta mancando di rispetto al Dio Inverno? Lui ridacchiava e ci mandava al diavolo. Ci mettemmo a un tavolo, ci spogliammo dei nostri mille strati, ordinammo cioccolate calde, ma io friggevo: non ero affatto contento di essere stato fermato mentre stavo riuscendo a guidare in scioltezza con quella temperatura siberiana.
La nebbia se ne andò, il sole si mise a splendere nel cielo e la temperatura schizzò a -13°, sicché anche Krastah si degnò di proseguire la marcia. Il fondo stradale era parzialmente innevato, nel senso che le auto avevano scavato un solco fino all'asfalto. L'Inn, il fiume dell'Engadina, era completamente ghiacciato, sembrava di essere in Alaska. Venimmo raggiunti da un Elefante solitario, un torinese a bordo di una Honda CB500 con rudimentali paramani di cartone. Era partito alle tre della mattina! Sembrava contento di averci incontrato e lo capivo. Era un po' agitato, disse che lui non sapeva niente del raduno, come ci si dovesse comportare una volta là per la paglia, il fuoco... Sembrava che volesse aggregarsi a noi ma non lo propose; e i miei compari, come già in Scozia, dimostrarono ancora una volta di non essere molto inclini alle aggregazioni per strada.
ARRIVA LA PRIMAVERA
Poi si mise a fare sempre più caldo. A Imst, in Austria, c'erano 8 gradi sopra lo zero. Scalammo il Fern Pass ed entrammo in Germania, a Garmish, dove si tornò a un -4° più consono al blasone del raduno. Eravamo contenti, reggevamo bene il freddo e facevamo tanti km. A Monaco di Baviera facemmo confusione con le varie tangenziali ed autostrade da prendere, ma poi prendemmo la direzione giusta: quella per Deggendorf, sul Danubio. Comunque orientarsi a Monaco è sempre stato un problema, anche nelle edizioni successive.
Ancora non lo sapevamo, ma i 140 km di autostrada tra Monaco e Deggendorf rappresentavano uno dei punti più caratteristici del lungo viaggio verso Loh. Infatti, anche nelle edizioni successive, ci sono arrivato sempre stanco, infreddolito e al buio e questo infinito rettilineo circondato dalla neve sembra fatto apposta per portare allo scoramento. 140 km non sono tanti, di solito. Qua li soffri parecchio, invece. C'è un solo autogrill lungo questa tratta, a circa 70 km da Monaco: è quello di Landshut ed è un punto di sosta obbligato per tutti gli Elefanti, perché è l'ultimo punto dove puoi incamerare calore prima di affrontare gli ultimi 110 km. Se poi dormi in tenda, questo calore te lo ricorderai con piacere. Quando sei a Monaco, ti mancano 180 km a Loh e sei stufo marcio. Quei 70 km fino a Landshut li patisci tantissimo. Senti freddo – nel 1998 ci passammo con -7° costanti – e all'idea che stai per arrivare in una radura innevata per dormire in tenda ti viene da suicidarti. Poi, di colpo, nel buio più buio vedi una luce: è la centrale nucleare di Lanshut, che anticipa l'autogrill. Quella centrale, negli anni successivi, è diventata il segnale per capire che ce l'avremmo fatta, che saremmo arrivati alla meta. Quando riparti da Lanshut, per fare gli ultimi 110 km, sei in grande forma fisica e psicologica. Sai che ce la farai e, quasi, non senti più freddo. A noi riscaldò il cuore trovare tante moto ferme all'autogrill. Quando sei perplesso e ti senti pirla, a fare una cosa da solo, basta vedere che sei in buona compagnia per un'impennata del morale.
IL DANUBIO!
Arrivare sul Danubio mi fece sentire felice. Lo considero un Posto, un confine, un fiume che parte dall'Europa mitteleuropea per arrivare a quella levantina. Il Danubio è il grande protagonista di uno dei miei film preferiti, "Gatto Nero Gatto Bianco" di Emir Kusturica. Che bello fu passare sopra di lui, al buio, intuendo là sotto il chiarore delle sue rive innevate... Una volta che si arriva a Deggendorf, bisogna prendere l'autostrada che si dirige a sud est verso Passau (Austria) e, fatti pochi km, si deve uscire a Iggensbach. Da qui ci sono 20 km di piacevolissime stradine collinari che, passando per Schöllnach, Zenting e Solla, porta a Loh, il minuscolo borgo rurale sotto al quale si svolge il raduno.
LANDE DESOLATE
Quando arrivammo a Iggensbach, avemmo la sensazione di stare andando a un raduno massonico. Non c'erano cartelli stradali che indicassero il raduno, o i paesi che ci interessavano. C'erano solo dei motociclisti italiani che si erano persi e che si rivolsero a noi speranzosi, come se fossimo stati dei veterani. Però azzeccammo la strada al primo colpo, per la questione dei flussi di cui parlavo nell'articolo sulla Hardalpitour: quella da seguire è la strada principale. Capimmo che la strada era quella giusta, perché ogni albergo che incontravamo era pieno di motociclette posteggiate fuori. E ci scandalizzavamo: "Ma perché questi dormono in albergo? Non è un raduno di tendaroli?". Ancora peggio fu quando vedemmo, posteggiate davanti a un altro albergo, due auto con carrello, con delle maxienduro posteggiate sopra. La targa era italiana. Ci vergognammo di essere italiani.
MAD MAX
Non c'era nessuno in giro. Erano le 19 e sembrava che fossero tutti morti. Scalammo la ripida salita che porta a Solla e solo in cima avemmo la consapevolezza che questo raduno esisteva: la strada era transennata e la Polizia faceva passare solo le moto! Che bella sensazione! Da Solla a Loh ci sono 2 km di strada e la trovammo interamente ricoperta di moto parcheggiate. Pensate a quanta scena fanno i parchi chiusi delle gare di enduro, con le moto tutte in fila e immaginate uno spettacolo simile spalmato su due chilometri. Ma la cosa non ci affascinava per niente: da sempre io vedevo le foto delle moto accanto alle tende e non capivo che senso avesse posteggiarle lungo questa strada. Avevano introdotto un divieto?
Alla fine della strada, di colpo, sotto di noi, a sinistra, vedemmo dei bagliori e restammo a bocca aperta: sembrava di essere usciti dal tunnel di Cartoonia. Eravamo in cima a una collina e ai nostri piedi c'era una città incredibile, tutta innevata, composta solo da tende e da fuochi, dove la gente si aggirava in sella a motociclette. Uno spettacolo post atomico, da civiltà sopravvissuta a una catastrofe, un Mad Max elevato al cubo. Questo colpo d'occhio, che è anche un colpo al cuore, me lo sono goduto in tutti i Treffen successivi, dato che ci sono sempre arrivato col buio. Pare che di giorno non faccia questo effetto. A quel punto, il freddo passa e tu hai davvero voglia di montare la tenda: è l'effetto della magia che emana questo raduno.
LA FOSSA
Appena si arriva al Treffen, c'è un baracchino dove ci si iscrive e si prende l'agognato adesivo. C'è pure la medaglietta da combinare con quelle delle altre edizioni, per formare una catenella. Ti fanno entrare con la moto: se ci sono quei 2 km di moto ammassate all'esterno è perché in molti non se la sentono di girare all'interno. Le strade sono tutte innevate e in pendenza. Chi ha l'enduro si diverte, chi ha la stradale conta sulla solidarietà delle altre persone. La Fossa vera e propria è una pista di autocross che sorge sul fondo di una conca circondata dagli abeti. Decidemmo di piantare le tende proprio sul fondo: là sotto si trova sempre posto, perché è il posto più difficile da cui tornare su. Montammo le tende con -7° e iniziammo subito ad andare in giro. Vedevamo scorrere ovunque fiumi di alcool e la cosa mi preoccupava, perché sono astemio, quindi odio le feste dove la gente si ubriaca per il gusto di farlo e poter spaccare tutto con la scusa "Ero ubriaco, non è colpa mia". Ma qua nessuno aveva la sbronza violenta. Una tipa aggredì Gugu in maniera fin troppo disinvolta, facendolo fuggire e noi ci domandammo: ma chi viene qua per fottere? In tenda, con questo freddo?
L'Elefantentreffen è un posto dove l'unico modo per scaldarsi è il fuoco, o il sacco a pelo dentro la tenda. Non ci sono locali riscaldati, a meno di non prendere la moto e andare nei paesi vicini. Ci sono dei baracchini che vendono wurstel, crauti e salsicce, ma li mangi in piedi. I bagni sono dei secchi senza acqua corrente montati su un carro, con le pareti poco più alte di te, senza riscaldamento e con l'aria che circola liberamente. L'ingresso è a pagamento e sembra incredibile che ci sia gente disposta a pagare per passare due notti in un posto così freddo e scomodo, ma è così. Io sono sempre stato felice di poter arrivare a quel baracchino coi soldi in mano.
Fin da quella prima sera avemmo la sensazione di vivere in un altro mondo, un altro pianeta. Ovunque ci girassimo c'erano tende, fuochi, moto che si spostavano sulla neve. Una volta che monti la tenda, diventi anche tu attore di questo teatro assurdo, ne sei protagonista ed è bello, tranne che per una cosa: ti rendi conto che, per parecchi tra quelli che dormono fuori, in albergo, tu fai parte di uno spettacolo grottesco. Arrivano, fanno la doccia calda, dormono sotto al piumone poi, il giorno dopo, con la moto scarica, arrivano al raduno, comprano l'adesivo ed entrano, con lo spirito di chi va allo zoo, ridacchiando. Si riconosce subito un gruppo che dorme in hotel da uno che il raduno lo vive da dentro.
Andammo a letto tardissimo, alle tre della mattina, ma gli altri erano tutti svegli. Fino alle sei della mattina sentimmo gente che parlava, rideva, faceva girare motori. C'erano dei tipi che davano gas in folle a manetta, poi toglievano il contatto e, quando lo rimettevano, si sentiva un botto, stile fucilata per tutta la valle. Non è il mio genere di riferimento preferito, ma poi si misero a farlo anche i vicini, poi i vicini dei vicini, ci mettemmo a farlo anche noi, si misero a farlo tutti. Il delirio. Era divertente.
Negli anni successivi, il giochino ha funzionato anche urlando "Uraaaaaal", che è la marca dei sidecar da Treffen per eccellenza (insieme ai Dnepr), o "Heeeeelga!", diventato di moda l'anno che uno perse la moglie e la cercava urlando il suo nome. Dopo un po', per tutto l'accampamento si sente urlare "Heeeeeelga!".
MEGLIO DELL'EICMA
Il mattino dopo c'erano zero gradi e nevicava. Uscimmo dalle tende e sembrava di essere esploratori sul pack. Facemmo colazione e andammo in giro per tutto l'accampamento: lo trovammo più interessante dell'Eicma. Ovunque vedevamo moto accrocchiate contro il freddo, o cose strane e bizzarre. C'era uno che si era costruito una capanna di legno sul sidecar e aveva collegato alla ruota motrice una sega per tagliare la legna. Geniale, ma chiedeva soldi per essere fotografato: che schifo, stai a casa e non rovinare l'atmosfera di questo raduno! C'era un tipo che faceva il bagno col pistolino di fuori, ma col gilet del Moto Club, dentro una vasca da bagno scaldata da un motore a due tempi. C'erano tante moto accrocchiate nello stile di cui ci parlava Krastah, le Treffen-custom, con ossa, maschere antigas al posto del faro, pellicce e tavanate simili. Un sacco di gente era vestita come gli unni, con elmi, pellicce... Ma, durante l'anno, questa gente cosa faceva? Erano impiegati di banca?
Prendemmo le moto e provammo a fare la salitona, quella che conduceva all'uscita. Gugu si sdraiò e, subito, un milione di persone corsero ad aiutarlo. Io ci provai ed arrivai in cima, perché ero già bravo a zampettare. Questa rampa era un posto molto divertente dove passare la giornata, per vedere quelli che ci provavano. Arrivarono due manici da paura con delle Husqvarna TE610, quelle cattive, senza la pompa dell'olio. Scesero a manetta, sinuosi come sciatori, ma non riuscirono a tornare su. O davano troppo gas, o non riuscivano a dosarlo, fatto sta che si piantavano. E fu così che, mentre la gente li spingeva, arrivò un tipo in sella a una Yamaha RD350 bicilindrica a due tempi, con gomme rigorsamente stradali. Beh, questo salì fino in cima, demolendo qualsiasi legge della fisica. Dopo questa scena incredibile, arrivarono due fratelli biondi, con la faccia da pazzo, in sella a due Honda XR600R. Loro insegnarono a tutti come si doveva salire su da qua: gas a martello in pianura, arrivarono sulla rampa a 300 km/h, con le gambe giù, ben piantate al suolo su entrambi i lati. Le moto impazzirono, scodarono violentemente, ma loro le controllavano con quelle gambe piantate a terra come plinti. La folla esplose in un boato.
LA GARA DI DONWHILL
Dopodiché, io mi misi a girare per tutto l'accampamento senza casco, da vero pirla, finché non trovai un secondo modo per scendere in fondo alla Buca: una discesa ripidissima. Appena iniziai a farla, mi resi conto che era tutta di ghiaccio vivo e mi schiantai a terra, prendendo una facciata pazzesca. Mai più senza casco! Vedendo che mi ero ammazzato, diverse persone accorsero ad aiutarmi, ma io ero scivolato con tutta la moto fino in fondo e non avevo bisogno di aiuto. Allora, questi deficienti corsero a prendere le loro moto e, tutti senza casco, tentarono anche loro di scendere da lì. Il fatto che io mi fossi steso subito aveva loro suggerito di fare una gara suicida: "vince chi cade per ultimo". Vinsero i due fratelli pazzi con le XR600R.
LA SECONDA NOTTE
Insomma, avevo atteso per 17 anni di andare a questo raduno, lo avevo esaltato nella mia immaginazione, eppure, una volta sul posto, mi resi conto che era ancora meglio di quello che mi aspettavo (di solito accade il contrario). Ma fui conscio anche che il motivo erano cose poco razionali, sensazioni difficili da raccontare: le luci dei fuochi all'arrivo, la sensazione di vivere in una metropoli di sopravvissuti... La seconda notte fu molto diversa dalla prima. La temperatura scese fino a -17° e la gente, distrutta dalle baldorie della sera prima, andò a letto presto. Era bellissimo: un grande silenzio, un freddo che faceva ghiacciare tutto e la gente che chiacchierava a bassa voce intorno al fuoco. Anche questa volta andammo a letto alle tre della mattina, chiacchierando con i nostri vicini di tenda tedeschi, che erano simpatici ma anche stronzi, visto che rubavano la legna a quelli che si addormentavano. Eravamo stupiti da come le temperature salissero e scendessero di parecchi gradi in poche ore, a differenza che da noi in Italia, dove erano assai più stabili.
La mattina dopo, sempre con -17°, tutto questo finì. Trovammo un ubriaco che s'era addormentato, per terra, con le mani nude, roba da congelamento. Ma il resto dell'accampamento era sveglio e tutti smontavano tutto.
IL RITORNO
Il viaggio di ritorno fu perfetto; attraversammo l'Engadina col buio e sedici gradi sotto lo zero ed andò tutto bene fino al Maloja, quando dal cavo della canottiera elettrica di Gugu partì una fiammata. Benvenuto anche tu nel regno del freddo, Gugu! Ma, ormai, era quasi tornato a casa...
Una volta a Milano, ci mettemmo a fare una testa così a quelli che erano rimasti a casa. "Ah, uh, oh, capolavoro, mamma che bel viaggio, da rifare assolutamente!". Io, a -17°, in tenda avevo avuto freddo e mi precipitai a comprare un sacco a pelo più potente di quello cinese di piumino di colore rosa che avevo usato a Loh. Trovai un Salewa Diadem 900 a 450.000 lire e le spesi, perché male interpretai la targhetta che dichiarava le temperature di utilizzo: "Comfort -13°, Extreme -27°". Io le lessi così: sopra i -13° inizi ad avere caldo, sotto i -27° inizi a sentire freddo. Invece, il significato era ben diverso: sotto i -13° inizi ad avere freddo, sotto i -27° crepi. Ma ormai l'acquisto era fatto. Uso a tutt'oggi quel sacco a pelo, ma non sempre sono stato al caldo.
Pochi giorni dopo il nostro ritorno, quelli di Tucano Urbano mi chiesero di scrivere un articolo testo+foto da proporre a Motociclismo. Loro erano clienti di quella rivista e volevano così farsi pubblicità, ma accettarono che io non facessi troppo il marchettaro. Lo pubblicarono e fu il mio primo articolo per la rivista per cui lavoro tuttora.
Sono stato lungo a descrivere il 1998, perché è stata la mia prima volta. In seguito, il raduno non è cambiato di una virgola fino ad oggi, per cui ciò che avete letto potrebbe valere anche per il 2014. Eppure, ogni edizione ha rappresentato una storia a sé.
1999, LA SOLIDARIETÁ
Questa edizione, ad esempio, è andata in vacca sia perché il tempo è stato crudele, sia perché eravamo troppo entusiasti ed abbiamo creato una compagnia troppo affollata, con moto da strada, che sulla neve non vanno... o quasi.
Ciascuno di noi raccontò con entusiasmo l'avventura e così, per il 1999, eravamo parecchi di più. Io avevo invitato mio fratello, che si presentò con la sua Yamaha TT350. Krastah aveva invitato due amici, dei quali uno aveva una Yamaha XT600 e l'altro una Yamaha XJ650, che era una quattro cilindri a cardano degli anni 80. E poi c'erano Checchino e Gugu. Eravamo in 7, ma diventammo molti di più.
Pochissime sere prima della partenza, mi telefonò Lorenzo Rinaldi, un collaboratore di Motociclismo: "Ciao, sono l'inviato per l'Elefantentreffen, visto che tu hai scritto il pezzo nel 1998 ci faresti da guida?". Io dissi di sì, ma ci rimasi di cacca, perché speravo di scrivere l'articolo anche per quell'anno. Lorenzo aveva un'Africa Twin e veniva con un amico dotato di una Suzuki DR650RS. Quindi, da 7 eravamo diventati 9.
Krastah era sempre più invasato per questo raduno, per cui decise di partire il giovedì mattina, con i suoi due amici e arrivare lassù il venerdì a pranzo, "per tenervi il posto", disse. Ma quella mattina nevicava, sul Maloja. Krastah era ancora in Italia, quando un motociclista che lo precedeva cadde in Engadina e finì sotto un camion, morendo. Mi pare che lo chiamassero Tranquillo e che cavalcasse una Honda Shadow 600, o qualcosa di simile. La Polizia svizzera, che già guardava con perplessità questi passaggi di moto sotto la neve, decise che era ora di finirla e bloccò tutte le moto che ancora dovevano passare il confine di Castasegna. Allora, Krastah rientrò in Valtellina, passò il valico dell'Aprica e tentò di salire sul Tonale, ma nevicava anche lì e finì per terra. Spaventato, discese la Valcamonica fino a Brescia e prese l'autostrada del Brennero più o meno mentre Gugu, Checchino e io partivamo da Milano. E ci telefonò: già, perché, rispetto alla Scozia, la grossa novità era che avevamo comprato tutti il telefono cellulare. Lui ci disse di tutti i macelli sui passi e allora, con infinita tristezza, accettammo l'idea di andare al raduno via autostrada del Brennero, una purga da spararsi negli zebedei. I due inviati di Motociclismo mi dissero che non intendevano viaggiare col buio e ci avrebbero raggiunto l'indomani mattina, Dio solo sa dove. Anche mio fratello disse la stessa cosa. La sensazione era che non ci saremmo beccati mai, ma avevamo queste strane cose in tasca – i telefoni cellulari – e ci sembrava una magia poterci chiamare ovunque fossimo. "Ciao, sono a Rovereto, dove siete voi?". "Ad Agrate". Robe così. Fantascienza.
DA 9 A 12
Alle 7 della mattina, eravamo dispersi su qualcosa come 280 km. Krastah e gli altri due avevano dormito a Bolzano, io e gli altri due a Rovereto, mio fratello e i due di Motociclismo a Milano. Alle quattro della mattina, mio fratello partì, ma i due inviati non si aggregarono perché la saracinesca del loro box si era bloccata. Tempo di arrivare al casello di Agrate, che mio fratello venne abbordato da due milanesi, uno su Honda XR400R e l'altro su Honda Transalp 600: "Vai all'Elefante? Andiamo insieme?".
Io non conoscevo Lorenzo Rinaldi. Quando, alle 7 della mattina, scesi per fare colazione e, nella hall dell'albergo, trovai mio fratello in compagnia di quei due, pensai che fossero Lorenzo Rinaldi e il suo amico, invece erano tutt'altre persone.
Rinaldi mi telefonò: alla fine, la saracinesca si era sbloccata e i due, andando a manetta, erano arrivati all'autogrill di Rovereto della A22 del Brennero e ci aspettavano lì. Quando arrivammo all'autogrill, trovammo tre motociclisti che ci aspettavano. Due erano assolutamente normali, vestiti da mototurismo con completi canonici in Cordura e con le loro Africa Twin e DR650RS perfettamente di serie, con gomme stradali. Il terzo era un pazzo. Un tipo barbuto, con orecchini, piercing, tatuaggi, cappotto di pelle lungo fino alle caviglie e CASCO DI LEGNO, lo giuro, aveva un casco a scodella di legno, robe che si vedono a teatro negli spettacoli in costume. La faccia era al vento, come in agosto. Si proteggeva con una sciarpa. La sua moto era una favolosa Moto Guzzi V7 Special di fine anni 60, perfettamente restaurata. Cosa c'entrava con Lorenzo Rinaldi e il suo amico? Nulla. Era un veneto di quelli che parlano in dialetto strascicato, che non si capisce niente e ci spiegò che si era svegliato tardi e che gli amici non lo avevano aspettato. "Posso aggregarmi a voi?" aveva chiesto a Lorenzo. Lui aveva detto di sì. Adesso eravamo in 12.
LA POLIZIA CI BLOCCA
Krastah e gli altri due arrivarono sul punto di valico del Brennero, ma trovarono una bufera di neve violentissima e si ritirarono dentro l'autogrill. Telefonarono per dire che non si vedeva nulla e che si faceva fatica a stare in piedi. Se ne rese conto anche la Polizia, che bloccò tutte le moto che arrivavano al casello di Vipiteno. Si creò un mega-raduno a lato del casello, fantastico... Quando Krastah venne a sapere ciò, decise di sfidare la bufera... per tornare indietro e raggiungerci. Ma no, dai! Era passato, lui... Appena ci raggiunse, smise di nevicare, la Polizia ci concesse di ripartire, ma noi restammo lì, perché quello con la XJ650 aveva bucato la ruota anteriore. Ripartimmo, ma la Guzzi V7 e la Yamaha TT600S si spensero proprio sul punto di valico. L'umidità aveva intaccato il loro impianto elettrico. Le moto ripartirono, ma la TT600 si fermò un'altra volta, a Innsbruck. Allora ci dividemmo. Checchino, Gugu, mio fratello ed io uscimmo a Innsbruck per tentare di capire cosa facesse andare a singhiozzo la TT, mentre gli altri otto proseguirono per Loh. Ma era tardi, tardissimo.
LA RESA
La TT ripartì e noi ci mettemmo in marcia a caccia degli altri otto, patendo un freddo pazzesco. C'era solo un grado sotto lo zero, ma doveva essere umidissimo (infatti eravamo accanto al fiume Inn), perché battevamo i denti. E si rimise a nevicare, proprio mentre il sole tramontò. Al buio e con la neve che ci batteva in faccia non si capiva molto. Il fondo era innevato e i Tir ci passavano sparati; non era per niente bello. C'era un signore che andava a piedi nella direzione opposta alla nostra, poi ecco una Mercedes dentro un fosso. Ma come aveva fatto a finire lì dentro? Lo capii quando, di colpo, mi si girò lo sterzo di 30 gradi, mentre la moto andava dritta: c'erano delle lastre di ghiaccio puro, sotto le nostre ruote. Panico, non lo sapevi finché non scivolavi... No, dai, così era troppo. Così si rischiava per davvero di finire sotto un Tir! E fu in quel momento che raggiungemmo le otto moto che ci precedevano, che però erano diventate nove perché, in autogrill, avevano raccolto un altro milanese (tutti di Milano, mica lo facevamo apposta!) che aveva perso i compari e non voleva proseguire da solo. Era un fighetto pazzesco, con una Honda VFR750, per niente ispirato dalla poesia dell'inverno: era qui solo per mettere la tacca sul fucile ed era incavolato nero perché nevicava. Stava sulle palle a tutti, ma come potevi lasciarlo solo? Adesso eravamo in tredici, il fondo era ghiaccio vivo, i Tir ci facevano il pelo, il TT di Checchino si era spento per la terza volta ed erano già le 19. Un anno fa, a quest'ora eravamo al raduno; adesso eravamo a Kufstein e ci mancavano ancora 275 km... Basta, gettammo la spugna. Arrivò un'auto con a bordo due ragazze bellissime, che ci chiesero se avevamo dei problemi. Rispondemmo di no, ma poi ci mettemmo a fantasticare su inviti a stare da loro e amenità simili. Invece finimmo tutti in un albergo di Kufstein, dove nessuno parlava il tedesco e la signora che lo gestiva non parlava né l'inglese né l'italiano. Ci dividemmo: erano tutti accoppiabili, tranne il pazzo con il casco di legno e il fighetto con la VFR. Ma quest'ultimo era veramente odioso e annunciò che non aveva alcuna intenzione di dormire in stanza con un tossico tutto piercing e tatuaggi. Finì che si prese una stanza singola. Casco di Legno non se la prese: aveva classe, Lui.
ATTACCATI DALLA POLIZIA
L'indomani c'erano -7° e nevicava da bestia. Allora dicemmo ciao ciao al Treffen e tentammo di tornare in Italia; sarebbe stata comunque un'avventura. Fighetto e Casco di Legno, pur essendo agli antipodi della razza umana, si allearono per trovare qualcuno che, a pagamento, portasse loro e le moto su un furgone in Italia. Lo trovarono e sparirono per sempre dalla nostra vita. Noi affrontammo 80 km di autostrada innevata, finché a Innsbruck non smise di nevicare. Passammo il Brennero con -12° e scendemmo in Alto Adige, sotto un sole splendido. Visto che era ancora sabato, decidemmo di andare a piantare la tenda in cima al Lago di Garda. Uscimmo a Rovereto Sud e andammo a comprare la carne da grigliare al supermercato di Mori, un paesino piccolissimo e molto tranquillo, che fu turbato dalla nostra presenza. Non facevamo chiasso ed eravamo educati, ma facevamo schifo. Avevamo i tutoni da freddo ricoperti dal sale e i capelli tutti sporchi. Una signora ci indicò e disse all'amica: "Vorrei spaccare loro la testa, con quei casconi che tengono in mano". Stavamo toccando con mano l'effetto che fa, in provincia, essere dei diversi. Ci linciavano con i nostri stessi caschi! E noi intendevamo fare campeggio libero in questa zona? Stavamo rischiando grosso, ma io conoscevo un campo da calcio isolato sopra il Passo di San Giovanni. Una sera di gennaio, chi vuoi che sarebbe passato di lì? Arrivammo, montammo le tende, ci mettemmo a cuocere la carne... ed arrivò un'auto. Si fermò a distanza, ma si capiva che ci osservavano. Avevamo un aspetto spaventoso. L'auto ripartì e, poco dopo, arrivarono due auto della Polizia. Scesero e, con modi bruschi, ci fecero capire che ci avevano preso per profughi del Kossovo (era il 1999). Spiegammo l'inverosimile, ovvero che eravamo motociclisti italiani in ritirata da un raduno sulla neve. "E lui è pure laureato", disse Krastah, indicandomi. Allora ci chiesero scusa, chiacchierarono un po' perché erano curiosi e ci concessero di restare lì. La notte si andò a -10°, e dire che il Garda era poco sotto di noi.
Questo Elefanten fu un fallimento, perché non andammo in Buca; ma fu favoloso dal punto di vista delle amicizie e delle aggregazioni. Avemmo la conferma di quello che ci dicevano del Treffen fatto in autostrada: poesia zero, ma conosci un sacco di gente.
Qualche giorno dopo, mi telefonò il Fighetto per sapere com'era andata e mi disse: "Che roba il Brennero, eh!". "Perché?". "Perché l'abbiamo passato con -27°!". "Ma no, erano -12°!". Mi immaginavo lui al bar, che raccontava che era andato al Treffen con -27°.
Di quell'Elefanten si parlò parecchio, su forum e riviste. L'articolo su Motociclismo era saltato ma, tramite Lorenzo Rinaldi, riuscii a far pubblicare un breve trafiletto, con foto, dove raccontavo com'erano andate le cose. Mentre su Motosprint si aprì un dibattito, perché Marco Valmori, colui grazie al quale avevo scoperto l'Elefantentreffen, scrisse un articolo in cui sosteneva che il mezzo giusto per questo raduno fosse il sidecar, come del resto era stato stabilito alla prima edizione. Andare in moto era troppo pericoloso e la morte di Tranquillo lo testimoniava. Diversi lettori, me compreso, scrissero per dire che non erano d'accordo; ma in realtà aveva ragione lui. Io gli andavo contro perché trovavo molto romantico andarci a due ruote e non tre, ma ero conscio della pericolosità delle moto. Fu la prima volta che mi misi a pensare alle catene da neve.
2000, IL DILUVIO
Tuttavia, per il 2000 decidemmo di tornare a fare il Maloja e di escludere dal nostro gruppo tutti quelli con moto da strada o con grosse enduro, specie se non tassellate. Oltre al solito Me Io, c'erano solo Gugu, Checchino e mio fratello. Krastah aveva deciso di andare a vivere in Nuova Guinea, senza sapere nulla di quel posto. Aveva venduto la KLX650 e aveva comprato, per 800.000 lire, una XT550 che aveva dotato di serbatoione da venti litri. Poi l'aveva dipinta tutta d'oro e aveva sagomato il parafango anteriore con tanti denti aguzzi da squalo. Era pazzo. Con quella XT devastante pretendeva di arrivare in Nuova Guinea senza neanche un carnet de passage en douane e, una volta laggiù, trovare un lavoro e rifarsi una vita. Non venne al Treffen, quindi, per non rischiare di farsi male e pregiudicare il viaggio.
Il giovedì sera, perciò, tornammo all'Hotel Stampa di Casaccia e qui io feci una cazzata immensa. Mi ero accorto che ero giù di pastiglie, ma non ero riuscito a cambiarle da solo, per cui partii senza il freno dietro e chiesi a Gugu, che era un bravo meccanico, se poteva aiutarmi. Ma la sera non si vedeva nulla e lui capì solo che c'era una vite spanata, che impediva di levare le vecchie pastiglie. Rimandò la cosa al mattino dopo, ma ci mise ore, lavorando a mani nude con -11°.
Quando partimmo per Loh, erano le 11 passate. In cima al Maloja c'erano -17°, ma poi la temperatura andò alzandosi. Fummo più veloci che nel 1998, nonostante la moto di Checchino si spegnesse di nuovo con l'umido e si fosse pure spezzata il perno snodato del kick starter (ma Gugu aveva il ricambio). All'ora di cena eravamo nella Fossa, con 8 gradi sotto lo zero e una quantità favolosa di neve. Si stava per preannunciare un grandissimo Treffen.
Ma, come ho detto, nella Fossa le temperature scendono e salgono con velocità incredibili. Ci svegliammo con +4° e una pioggia torrenziale. Diluviava e la neve si stava sciogliendo alla velocità della luce, creando fangaie spaventose. Stare lì era uno schifo.
SUPER SCARPE
Ma io vidi che, in uno dei baracchini sul fondo della Fossa, vendevano delle scarpe pazzesche, da tundra artica, dichiarate calde fino a -40°. Io ero stufo dei miei stivali pieni di ovatta che non traspiravano. Volevo quelle scarpe, anche se costavano 360 marchi, ma avevo solo le lire. Andai al bancomat di Zenting, che distava 5 km, ma arrivarci fu un macello perché nella parte alta della strada nevicava e c'erano alcuni italiani con moto da strada che stavano tentando di tornare a casa, così mi fermai per aiutarli. Ricordo uno con una GSX1100R a cui partì l'avantreno: il rumore della carena che si spiaccicava sulla strada innevata mi fece pensare a un uovo rotto. La più furba era una ragazza di Bologna che, con una Triumph, sfruttava la canaletta a bordo strada per impedire alla ruota posteriore di girarsi.
Quando tornai all'accampamento, le scarpe erano state vendute. Tutte.
A mezzogiorno, decidemmo di smontare le tende e tornare a casa. Dio, che tristezza! Non facemmo neanche il giro per l'accampamento, perché nessuno aveva voglia di fare qualsiasi cosa. Ma restammo inchiodati lì perché il TT600S di Checchino e il TT350 di mio fratello non davano segni di vita. Ormai avevamo smontato le tende, bagnando i sacchi a pelo e anche noi eravamo bagnati fradici, perché ci entrava l'acqua dal collo (eravamo preparati per la pioggia in moto, non in campeggio). Io venni mandato in giro, a cercare un albergo. Ma fu un macello. Tutti gli alberghi erano strapieni, ovviamente di motociclisti. Finalmente, a Zenting, convinsi il proprietario a farci dormire nella sala giochi, quella con lo scivolo e i giochi da tavolo. Nel frattempo, successe di tutto: il TT600 ripartì, il TT350 no; mio fratello lasciò lì la moto e venne a Zenting seduto dietro Gugu, ma la strada aveva acqua sopra e ghiaccio sotto, così i due caddero; poi cadde Checchino; a mio fratello sparirono le borse laterali; io, nel frattempo, stavo combattendo per salvare lo spazio e uno stendino contro un gruppo di francesi, ma gli altri non trovavano Zenting e io dovetti andare a prenderli, perdendo lo stendino. La notte fu orribile, perché dei cafoni ubriachi si sedettero accanto a noi che dormivamo e stettero fino alle sei della mattina a scoreggiare e ruttare. La domenica diluviava ancora, la neve era sparita del tutto e non solo la TT350 non partiva, ma altrettanto fecero la mia DR350 e la TT600S. Pazzesco, l'unica moto che funzionava era la solita, vecchissima XT600 di Gugu, grippata due anni prima e tuttora in gamba. Era domenica, il tempo del Treffen stava finendo, ma quelle moto ripresero vita solo alle 17 e non ci fidammo a ripartire per l'Italia. Ci prendemmo un giorno di ferie e una stanza e fu bellissimo, ci rilassammo, mangiammo la cotoletta, scherzavamo e ridevamo, alla fine anche questo fu un Treffen divertente. Il lunedì, però, pioveva ancora a catinelle e la TT350 era tornata a non cantare, pur avendo passato la notte dentro una specie di stalla. L'abbandonammo lì. Il ritorno fu una purga autostradale infinita, ma per cena eravamo a Milano. Mio fratello se lo fece tutto seduto dietro Gugu, poi gli toccò tornare a Loh con la mia Tempra e caricare il TT smontato nel baule.
Subito dopo, io diventai un collaboratore fisso di Motociclismo e scoprii che, in redazione, nessuno amava l'Elefanten. Anzi, non lo potevano soffrire!
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