Spencer e Lawson, ma anche l’indimenticabile Wayne Rainey, il funambolico Kevin Schwantz, il “re senza corona” Randy Mamola, le meteore Mike Baldwin e Bubba Shobert, il bizzoso John Kocinski e il pragmatico Doug Chandler, hanno scritto la storia della 500. Fra questi piloti Eddie Lawson (
qui le foto della sua carriera), nato a Upland nel sud della California l’11 marzo del 1958, è quello ad aver vinto di più: i suoi quattro Campionati mondiali (1984-1986-1988-1989) e i trentuno GP conquistati in dieci anni di carriera (a cui vanno aggiunte una 8 Ore di Suzuka e due 200 Miglia di Daytona) ne fanno ancora oggi il pilota americano più titolato di sempre. Eppure il suo invidiabile palmares non è sufficiente a farlo ricordare dagli appassionati, che anche quando correva al suo stile pulito ed efficace preferivano la guida da rodeo dei suoi connazionali, bravi nel guidare al di sopra dei problemi delle moto, ma che in alcuni casi - come il dramma di Rainey ci ricorda - hanno pagato un prezzo altissimo al voler domare a tutti i costi le scorbutiche 500 degli anni Ottanta. Eddie invece è caduto pochissimo in carriera e in alcuni casi nemmeno per colpa sua, dando sempre l’impressione di guidare con la testa senza mai rischiare di finire in terra andando oltre i limiti del mezzo. In più Lawson non è mai stato un grande comunicatore. Timido, introverso, in perenne lotta con i giornalisti che a suo dire scrivevano cose non giuste su di lui, faticava a lasciarsi andare anche dopo una vittoria. Mentre Mamola o Schwantz arringavano le folle dal podio, lui rimaneva impenetrabile, quasi sempre in silenzio. “
Amavo solo andare in moto e non vedevo l’ora di scendere in pista. - ha confessato alcuni anni fa in un’intervista al giornalista inglese Mat Oaxley -
Dopo ogni gara pensavo solo a tornarmene a casa per andare a girare nel deserto con la moto da Cross, per divertirmi e rilassarmi. Io volevo concentrarmi solo sui GP e pensavo di non aver alcun bisogno di parlare con i giornalisti: loro mi odiavano e io non li sopportavo, pensavo che le cose potessero andare bene così”.