Suzuki GT 380 vs Kawasaki Mach II 40
Introduzione
L'affermarsi dei due tempi nel mondo
delle corse ed il successo di due modelli come la Kawasaki Mach III 500
e la Suzuki Titan 500 fanno venir voglia nei primi anni settanta alle due
Case giapponesi di lanciare due modelli di minor cilindrata, 400 cc, che
siano economici ma conservino un appeal aggressivo e alla moda.
I primi anni Settanta sono un periodo segnato
in Italia da grandi eventi politico-sociali ma anche da un vero e proprio
boom per quanto riguarda la vendita delle moto. È il tempo delle grandi
battaglie studentesche e operaie, ma anche nel nostro settore c’è
fermento;
le vendite sono decollate, si accende una lotta appassionante per controllare
i diversi segmenti di mercato. Quello riservato alle moto comprese fra
i 350 cc e i 500 cc è particolare, con modelli capaci di eguagliare le
prestazioni delle grosse cilindrate mantenendo i costi di gestione a livelli
accettabili.
Le moto che presentiamo qui potevano sembrare
allora in grado di rappresentare il futuro, ma la ciclistica non esaltante
ed il protezionismo italiano ne limitarono l'affermazione, poi del tutto
compromessa dal periodo della austerity. Oggi sono due belle moto da amatori,
sempre sfruttabili, che si possono acquistare ancora a prezzi
convenienti.
Praticamente assenti le Case italiane,
rappresentate a partire dal 1975 dalla sola Moto Guzzi GTS 400, brutta
copia della Honda CB Four, le uniche protagoniste di questa battaglia
commerciale
arrivano dal Giappone a pochi anni di distanza una dall’altra e hanno
la medesima impostazioni tecnica. Infatti la Suzuki GT 380 e la
Kawasaki 400 Mach II sono entrambe 2 tempi a 3 cilindri
raffreddate
ad aria. Un tipo di frazionamento che già da solo mandava in visibilio
tutti gli appassionati.
In
quegli anni il nostro Paese è ancora esente dalle rigorose leggi
antinquinamento
che stanno prendendo piede negli USA e che nel volgere di poche stagioni
condanneranno all’estinzione le maxi a 2 tempi. Con la famosa
austerity
ancora di là da venire, i risultati commerciali furono subito
incoraggianti
per entrambi i modelli anche per via del prezzo. Nel 1974, per esempio,
la GT 380 costava 991.200 lire e la Mach II
980.000 lire.
Per confronto una Suzuki GT 750 era a listino a 1.581.200 lire, mentre
la Kawasaki Mach III 500 la si poteva comprare a 1.198.400 lire. Una 350
cc, invece, costava tra le 650.000 (Ducati Desmo) e le 800.000 lire (Morini
3 1/2).
Pedigree ben differenziati
La GT 380 è una moto tutta nuova.
Presentata al Salone di Tokyo del 1971, deve affiancare sul mercato la
veloce Suzuki Titan 500 ripetendone il successo. La nuova arrivata ha diverse
carte vincenti, a cominciare dal sistema di raffreddamento RAS che migliora
la capacità di raffreddamento del blocco cilindri.
La Mach II invece viene presentata
a Parigi nell’ottobre 1973 ed è una copia ridotta della H1B 500,
di cui
sembrerebbe un inutile clone se non fosse per la complicata burocrazia
giapponese, dove la patente per guidare moto fino a 400 cc era decisamente
più semplice da ottenere.
Suzuki GT 380
L’estetica della nuova Suzuki arrivata in Italia nei
primi mesi
del 1972 è caratterizzata da linee squadrate sia per la carrozzeria sia
per il gruppo termico. Per esigenze di design vengono montati 4 scarichi
finali, tramite lo sdoppiamento di quello del cilindro centrale, per avere
una perfetta simmetria del gruppo marmitte su entrambi i lati.
Seguendo un’ottica sobria e un po’ conservatrice lo starter
è posizionato
sul manubrio (a sinistra), il faro è verniciato nella stessa tinta del
serbatoio e dei fianchetti mentre la forcella ha gli steli protetti con
soffietti in gomma. I freni sono entrambi a tamburo, a doppia
camma
l’anteriore, a camma singola il posteriore.
Tutte
caratteristiche che verranno progressivamente abbandonate nelle serie successive
dove trovano spazio linee più addolcite per il convogliatore
RAS,
lo starter posizionato direttamente sul gruppo carburatori e il comando
del gas a filo unico con comando a bilanciere, il faro appiattito in nero
opaco con ghiera cromata e la forcella con steli scoperti. Modifiche anche
all’impianto frenante: il debole tamburo anteriore a
doppia camma
viene sostituito da un disco da 280 mm a comando idraulico, mentre dietro
rimane il vecchio tamburo da 200 mm.
Il
motore della prima versione - un “quadro” (alesaggio per
corsa 54x54
mm) di 371 cc con potenza massima di 38 CV a 7.000 giri e coppia di 3,93
kgm a 6.000 giri - guadagna 2 CV e sale così a 40 CV a 7.500 giri.
Aumentano
anche la coppia, ora di 3,98 kgm sempre a 6.000 giri, e la velocità
massima,
che sale a 176 km/h con il manubrio basso, mentre se si mantiene quello
rialzato la velocità scende a 168 km/h. Oltre al sistema RAS, il motore
Suzuki ha un inedito sistema di lubrificazione denominato CCI con il quale
l’olio viene messo in circolo tramite una pompa a portata variabile
comandata
dalla manopola del gas. Tre tubi a pressione lo portano dal serbatoio alle
manovelle, ai cuscinetti di banco e alle teste delle bielle (che lavorano
sia qui che al piede su rullini ingabbiati), mentre altri 3 tubi lo immettono
nei condotti di ammissione dei cilindri: si ottiene così una
lubrificazione
integrale più efficiente, mentre la portata della stessa, regolata
dall’acceleratore,
è garanzia di minori consumi e minori depositi carboniosi.
C’ è poi un’ulteriore sistema detto SRIS (Suzuki Recycling
Injection
System) di drenaggio e ricircolo dell’olio che si accumula nelle camere
di manovella, basato sulla differenza di pressione tra camere di manovella
e canali di travaso. Questo sistema favorisce le partenze dopo lunghe soste,
assicurando minore fumosità agli scarichi e candele più pulite
anche viaggiando
a bassa andatura.
Ricorda
al riguardo Gino Sacchi, della storica concessionaria milanese Suzuki:
«Quando un cliente ci portava una GT 380 che secondo lui era bisognosa
di una messa a punto del motore, spesso la nostra cura consisteva in una
bella sgroppata ad alta velocità: bastava questo per riportare le cose
a posto. Insomma, andare troppo piano con la 380 innescava dei problemi!».
Il cambio è a 6 rapporti, con la prima piuttosto lunga e 5a e 6a marcia
abbastanza vicine per migliorare la resa in autostrada. Il fatto che il
modello si chiami GT non è certo casuale, anche perché la moto ha
un notevole
comfort di marcia. Grazie alla testa monolitica e alla “cupola” del
sistema
RAS, la GT 380 vibra poco e non produce nemmeno il rumore di ferraglia
tipico delle alette di risonanza di altri propulsori similari. Inoltre,
il peso di soli 171,8 kg (dichiarati perché la moto pesa almeno
10 kg in più) era un’ulteriore garanzia di agilità e
maneggevolezza. I
difetti della 380 GT erano quelli congeniti nelle moto giapponesi
dell’epoca:
sospensioni troppo morbide, manubrio un po’ troppo rialzato mentre,
riguardo
alla frenata, con il disco anteriore della seconda serie la sicurezza
aumenta notevolmente. In Italia vengono importate tutte le versioni prodotte
anche se è la terza ad ottenere il maggior successo. Basti pensare che
nel 1972 ne vengono immatricolate 50, mentre nel 1973 si supera quota
700.
La GT 380 del 1975 è leggermente più potente: 41 CV a 7.500 giri,
mentre
nel 1976 e 1977 le altre versioni si distinguono soprattutto per alcune
modifiche estetiche a grafiche e colori e ad alcuni particolari della
ciclistica.
Per esempio, la GT del 1976 poteva montare ruote in lega alluminio/magnesio
dell’italiana Malber con impianto frenante interamente a disco e pinza
posteriore Brembo.
Ricorda ancora Sacchi: «Abbiamo importato tutte e sei le versioni della
GT 380, ma la più venduta è stata decisamente quella col freno a
disco
anteriore. Vendemmo la 380 fino al 1978 quando le norme antinquinamento
avevano ormai stroncato la domanda di 2 tempi».
I tester di Motociclismo rimasero favorevolmente impressionati dalla
moto durante la prova su strada effettuata nel 1974: “LA GT 380 è
molto
maneggevole, ben frenata e rifinita, mentre per quanto riguarda le prestazioni
(ulteriormente esaltate dal cambio a sei marce) spalancando bene la manetta
si riceve una risposta decisamente rabbiosa fin da 4.000 giri e questo
entusiasmante sprint dura fino a 8.000 giri”.
Per una 2 tempi capace di toccare i 170 km/h i consumi non sono esagerati.
Anche viaggiando piuttosto allegri la GT 380 non scende mai sotto la soglia
dei 10 km/litro, mentre ad andature più tranquille il consumo medio
è attorno
ai 15 km/litro.
Kawasaki MachII 400
Rispetto
alla GT 380 la Kawasaki é di tutt'altra pasta, con le sue linee filanti
e aggressive. Come la Suzuki, anche la 400 Mach II dichiara un peso di
172 kg. Tra i molti particolari più o meno identici a quelli della
sorella
maggiore di 500 cc ci sono la forcella, la strumentazione, i comandi e
le leve, il serbatoio, il codino, i parafanghi e il sellone.
La grinta di famiglia viene sottolineata dalla consueta asimmetria dei
tre scarichi finali: due sulla destra e il terzo sulla sinistra. Come sempre
curatissime le finiture, a cominciare dalla verniciatura metallizzata della
carrozzeria. Un altro dettaglio degno di nota è rappresentato dalle
pedane
del passeggero e dalle marmitte montate elasticamente, due evidenti misure
anti-vibrazioni. Tutti i comandi e le leve sono al posto giusto, con quella
del cambio caratterizzata dalla prima in basso. Il motore
è del
tipo in lega leggera e camicie in ghisa come sulla 500, con distribuzione
a incrocio di corrente e pistoni piatti; le bielle che lavorano sia alla
testa sia al piede su rullini ingabbiati. La nuova cilindrata si ottiene
con le misure di alesaggio e corsa pari a 57x52,3 mm per ognuno dei tre
cilindri. Con un rapporto di compressione di 6,5:1, la potenza massima
è di 42 CV a 7.000 giri e la coppia massima di 4,32 kgm a 6.000 giri.
Durante
la prova di Motociclismo la Mach II tocca i 166,7 km/h, con un tempo sui
400 metri con partenza da fermo di 14,42 secondi e velocità di uscita di
140 km/h.
Freni. Facendo tesoro dei guai prodotti dalle carenze funzionali dei primi freni a tamburo della 500, la Mach II esce già in origine con un disco anteriore da 280 mm con pinza a comando idraulico (simile nella forma a quella montata sulla Z1 900 presentata nel 1972), mentre dietro resta il tamburo monocamma della Mach III da 180 mm. L’impianto, secondo il tester dell’epoca, era “adeguato, richiedendo soltanto uno sforzo leggermente elevato per l’azionamento, ma giungendo al limite del bloccaggio solo se sollecitato con forza”. Il cambio a 5 marce ha i rapporti “ben scalati, con una prima piuttosto lunga e le altre marce molto ravvicinate”. Sospensioni tarate troppo morbide, manubrio troppo alto erano i soliti ostacoli al godimento pieno di una moto che era per altro, come notava sempre il tester di Motociclismo, “particolarmente maneggevole e dotata di molto sprint”. La prova su strada sottolineava anche “la grande pastosità del motore, veramente docile anche ai bassi regimi, senza per questo diventare intrattabile agli alti”. Come sulle sorelle di maggior cilindrata le vibrazioni sono avvertibili nonostante la presenza dei silent-bloc degli attacchi posteriori del motore. Notevole anche la rumorosità meccanica soprattutto a freddo, anche se rispetto alle 250 (mai importate in Italia) e 350 è decisamente inferiore.
Se, come ha confermato l’ex importatore Marino Abbo, la Kawasaki 400 in Italia era un’alternativa “sfiziosa” e più economica della Mach III 500, all’estero diventa un vero best-seller. In Francia ad esempio le vendite salgono alle stelle e viene addirittura istituito un Trofeo monomarca denominato Coupe Kawasaki-Moto Revue che dal 1974 al 1978 vede imporsi Bernard Sailler, Eric Saul, Christian Le Liard, Marc Fontan e Pierre-Etienne Samin, tutti piloti approdati in seguito al Mondiale GP.Alla prima serie del 1974, denominata S3, fanno seguito altre sei versioni (S3A, KHA3, KHA4, KHA5, KHA6 e KHA7), non tutte importate nel nostro Paese, modificate soprattutto nell’estetica. Le modifiche maggiori sono sulla KHA3 del 1976 che ha l’accensione elettronica anziché a puntine. Rispetto alla S3 dell’anno precedente vengono modificati anche la taratura dei carburatori per “accordarli” al nuovo filtro dell’aria e agli scarichi più silenziati. Diminuisce anche la potenza che passa da 42 a 38 CV, mentre la coppia scende a 3,9 kgm a 6.500 giri, segno che il vorace 2 tempi Kawasaki soffre lo strozzamento delle norme antinquinamento.
L’ultima versione, la KHA7 del 1980, non è importata in Europa. Viene presentata con la colorazione verde-corsa Kawasaki e la scritta KH sulla sella, ma è ormai un modello obsoleto ed esteticamente superato perché gli appassionati di 2 tempi sportivi hanno ormai nel cuore da qualche anno la Yamaha RD 350 (con motore raffreddato a liquido e cerchi in lega), una moto sicuramente più grintosa sia dal punto estetico sia da quello delle prestazioni.